Proprietà intellettuale, tra invenzione e rendita di posizione
A proposito di brevetti COVID, cantanti e opere d’ingegno
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A proposito di brevetti COVID, cantanti e opere d’ingegno
Sono però anche sensibile all’obiezione, che è stata manifestata nel mondo occidentale, secondo cui la rinuncia alla protezione della proprietà intellettuale sarebbe una potenziale grave minaccia per il futuro della ricerca scientifica; se nemmeno i cani muovono la coda gratis, immaginiamoci se tutti i ricercatori ricercherebbero senza la prospettiva di un ricco guiderdone. Non senza qualche buon motivo, quindi, si era deciso che la ricerca (anche medico-farmacologica) dovesse essere in mano ai privati e soggetta alle logiche del mercato e del profitto, scelta che ha ad esempio condotto la Svizzera a smantellare un centro di ricerca sui vaccini che aveva fatto del nostro Paese un pioniere e una referenza nel settore. Ora sembra che si stia riconsiderando questa scelta, a seguito delle gravi storture generate dallo scontro tra logiche di mercato ed emergenza pandemica. Vedremo.
I diritti di proprietà intellettuale (brevetti, marchi, copyright e simili) sono fondamentali, ma è altrettanto fondamentale limitarli per evitare che da una valida tutela delle opere d’ingegno si giunga a una mera e sterile rendita di posizione, o a un eccesso di ritorno economico, o ancora a situazione di grave e inumana ingiustizia come quella che riguarda i vaccini. È quindi logico (ed equo) che vengano decise sospensioni o posti limiti temporali (e geografici) all’esclusiva per l’uso di elementi di proprietà intellettuale; ed è quello che succede, con le norme di legge che liberalizzano l’accesso a scadenze variabili in funzione del tipo di diritto. Per potere accedere a strumenti essenziali di sviluppo economico, la Cina si è per anni fatta un baffo della proprietà intellettuale, saccheggiando a man salva opere protette altrove; ora produce proprietà intellettuale, e quindi tende a proteggerla come fanno tutti.
Anche vecchi menestrelli, imbolsiti cantanti e antiche rockstar fanno a gara per vendere il proprio catalogo musicale, e con il copyright anche un po’ della loro anima bella, o di quello che ne resta; sono forse angosciati dall’annullamento dei concerti e dei quattro soldi che ricevono da YouTube o da Spotify, ma di certo lo sono dal tempo che passa e dall’ispirazione che si appanna.
E, in effetti, quando si vogliono eternizzare rendite di posizione è il primo sintomo di un inaridirsi della fonte delle idee; a maggior ragione, quando si tenta di monetizzare un po’ parassitariamente la propria storia, o i propri marchi, o addirittura rivendicando diritti e privative sul … colore (un caratteristico tono di blu, un certo pantone di rosso), elementi che non vengono magari neppure utilizzati dal titolare del diritto ma da terzi, in classi merceologiche estranee al core business, facendo capo al comodo e lucrativo strumento delle licenze.
Poco male se il consumatore è disponibile a pagare di più un profumo per il fatto che sulla scatola è affisso (anche) il marchio di una società che non produce profumi; decisamente male, sicuramente peggio, è voler continuare a lucrare sulla salute delle persone. Responsabilità personale là, elementare decenza qui.
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