Nell’era della “Governance by Numbers”, per riprendere il titolo di un importante libro di Alain Supiot, la politica sembra sempre più vincolata da rigidi parametri quantitativi. Questo approccio ragionieristico impone una visione che sacrifica la progettualità e la creatività in nome di bilanci equilibrati e numeri perfetti. La “sella vuota” di dantesca memoria, come metafora della mancanza di leadership efficace e di visione strategica, è la conseguenza di un sistema che si limita a navigare a vista, senza una guida, se non automatica, che possa spingersi oltre il presente per immaginare il futuro.
La politica dei bassi salari è un chiaro esempio di questo approccio ragionieristico. Da un lato, si comprimono i salari per mantenere competitività e attrarre capitali. Dall’altro, lo Stato sociale finisce per sostenere indirettamente le imprese private, offrendo servizi e sussidi che compensano i salari insufficienti. Così, il welfare si trasforma in un supporto mascherato al profitto, più che in un vero strumento di equità e redistribuzione.
Un altro pilastro di questa Governance è il freno al disavanzo, una misura che in teoria punta a evitare eccessi, ma che in pratica blocca investimenti necessari per lo sviluppo economico e sociale e, paradossalmente, indebolisce il ruolo, per quanto indiretto, di supporto al profitto. Il tutto per rafforzare l’attrattività fiscale confidando, sperando, nel famigerato effetto sgocciolamento, tanto invocato quanto mai verificato. Il freno al disavanzo, e il suo equivalente a livello federale, ossia il freno all’indebitamento, come da Pietro Martinelli evidenziato con il suo abituale acume (laRegione del 16 settembre 2024), alimentano debiti occulti, come quelli derivanti dalla crisi ambientale. Debiti che ricadranno sulle uscite complessive dello Stato, quando da occulti si riveleranno palesi al momento del concretizzarsi dei rischi, creando un effetto a catena che comprime le risorse pubbliche, riducendo ulteriormente i redditi complessivi.
Questa dinamica è intrinseca al capitalismo liberista, in cui la compressione dei redditi e il conseguente aumento delle disuguaglianze non sono anomalie, ma elementi costitutivi e sistemici del funzionamento economico. Un vero e proprio paradigma. La soluzione che il sistema adotta per contrastare il problema della scarsa domanda indotta dai bassi salari, oltretutto aggravato dall’aumento del lavoro gratuito, con il rischio di crisi da sovraproduzione, non è affatto un aumento dei salari, bensì una creazione incontrollata di liquidità. Non redditi, ma liquidità destinata ad alimentare meccanismi speculativi borsistici. Non redditi, ma rendite finanziarie. Liquidità a tutti i costi (Draghi docet), pur di non aumentare i salari. Tant’è vero che, mentre i salariati pagavano gli effetti delle politiche monetarie restrittive antinflattive, ad esempio con tassi ipotecari o pigioni elevati, i mercati finanziari continuavano a gonfiarsi grazie all’afflusso di liquidità creata fuori dai confini nazionali. Alla faccia dell’internazionale sovranista. È quanto abbiamo scoperto in agosto, quando il Giappone, per combattere la sua inflazione, ha osato alzare i suoi tassi d’interesse, facendo ritornare in patria i capitali che in questi anni erano emigrati in massa verso gli Stati Uniti alla ricerca di rendimenti superiori, per la felicità dei nuovi baroni del capitalismo delle piattaforme.
Disuguaglianze crescenti e una concentrazione della ricchezza senza precedenti ai vertici della piramide sociale, non possono che generare rancore sociale, violenza e un’erosione della democrazia rappresentativa. Da tempo si disquisisce di postdemocrazia, ma qui ci siamo in pieno. In un contesto dove i redditi non crescono ma la liquidità alimenta la speculazione e le rendite, il malcontento è destinato a esplodere, minando la coesione sociale e la stabilità politica.
È evidente che solo un cambiamento delle politiche economiche può spezzare questo circolo infernale. Servono interventi che promuovano una crescita sostenibile e inclusiva, mettendo al centro la redistribuzione della ricchezza e il rafforzamento dei salari, piuttosto che la tutela del capitale finanziario e soprattutto la concentrazione della ricchezza. Parafrasando Heidegger, secondo cui “Ormai solo un Dio ci può salvare”, si potrebbe dire che “Ormai solo un cambiamento di paradigma ci può salvare”, un’azione politica che miri a rimettere al centro l’equità e la giustizia sociale. Evitando di soccombere alla “Governance by Numbers”, evitando il tramonto.
Scritto per laRegione