Quell’odio che nasce da un conflitto etico
Siamo passati dai massacri del Novecento a un’epoca dominata da un consenso elitario. Il vuoto è stato colmato da giudizi di tipo etico che rendono impossibile il dialogo
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Siamo passati dai massacri del Novecento a un’epoca dominata da un consenso elitario. Il vuoto è stato colmato da giudizi di tipo etico che rendono impossibile il dialogo
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Perché ci si odia tanto, oggi, in politica? Ce lo stiamo chiedendo almeno da un decennio, ma il fallito attentato a Donald Trump rende l’interrogativo ancor più urgente e rilevante. Qui cercherò di rispondere a questa domanda con un ragionamento storico. Che non è l’unico possibile, forse nemmeno il migliore, ma può contribuire per lo meno a gettare un po’ di luce sulla questione. Il discorso che sviluppo di seguito si compone di tre parti: alla fine del Novecento la politica ha perso la posizione centrale che aveva avuto nel corso di quel secolo, e di conseguenza il conflitto politico è venuto perdendo di senso e d’intensità; il posto della politica è stato allora occupato dall’etica, e in particolare da quel tipo di moralità che va sotto il nome grossolano di «politicamente corretto»; la ribellione politica dei nostri tempi è in realtà una rivolta morale- perciò è tanto intensa, e perciò facciamo così gran fatica a comprenderla in termini politici.
Il Novecento è stato il secolo delle più intense passioni politiche, passioni che hanno scavato fra gli esseri umani fossati incolmabili, generato inimicizie mortali, fatto versare fiumi di sangue. L’odio e la violenza che oggi contempliamo stupefatti come se fossero atterrati da chissà quale galassia lontana fanno sorridere, se solo li paragoniamo a quelli di una manciata di decenni fa. E non servono nemmeno i libri di storia, per fare il paragone, basta la memoria: per chi li ha vissuti, come chi scrive, è sufficiente ripensare all’atmosfera cupa e soffocante degli Anni Settanta. Il Novecento della politica, a ogni modo, si è concluso ormai da molti decenni. Anzi, a ben vedere si è chiuso proprio in quegli Anni Settanta la cui esplosione di politica radicale, intensa e sanguinosa – giunta al termine di un cinquantennio abbondante di politica ancor più radicale, intensa e sanguinosa – ha paradossalmente inaugurato una lunga stagione di depoliticizzazione.
L’ultimo quarto del ventesimo secolo e l’esordio del ventunesimo, così, hanno visto la politica ritirarsi. Perdere prestigio e credibilità. Mollare la presa sulla società e sull’opinione pubblica. Smarrire la capacità di condizionare mercati sempre più globali. Abbandonare le leve della politica monetaria alle banche centrali, e di varie altre politiche alle autorità indipendenti. Subire limitazioni sempre più stringenti dal diritto, dai diritti individuali, dalle Corti Costituzionali, dalle organizzazioni internazionali. Questa politica rimpicciolita nella reputazione e nei poteri non poteva certo continuare a generare le passioni di un tempo, né fornire ai partiti un largo campo di gioco che consentisse loro di differenziarsi gli uni dagli altri. Col tempo – e al netto dei roboanti scontri verbali, recitati sul proscenio a beneficio del pubblico pagante – le forze politiche sono venute convergendo verso il centro: semplificando molto, le destre hanno accettato l’espansione universalistica dei diritti individuali, le sinistre hanno fatto pace col mercato. La depoliticizzazione si è così tradotta in depolarizzazione: poco spazio per la politica e, in quello spazio striminzito, molte scelte obbligate e modeste possibilità di distinguersi.
In quest’ordine depoliticizzato, l’accento storico si è spostato sulla moralità. Possiamo fare a meno di un potere politico intrusivo e oppressivo, possiamo minimizzare il ruolo dell’autorità pubblica, soltanto se viviamo in una società moralmente solida: se siamo capaci di controllare da soli il nostro comportamento così da poter dar vita a una società libera e pacifica, spontaneamente ordinata e progressiva. L’appassire della politica, così, determina il fiorire dell’etica. Lo disse bene George W. Bush nel suo secondo discorso inaugurale da Presidente degli Stati Uniti d’America, nel gennaio del 2005, con un gioco di parole intraducibile: «Self-government relies, in the end, on the governing of the self». Che tipo di etica, l’aveva spiegato invece l’allora presidente francese Jacques Chirac in un discorso del maggio 1998: «Questo cittadino di domani, possiamo ben provare a tracciarne il profilo. È un cittadino coinvolto nella vita della città, impegnato in tutte le lotte in cui sono in gioco la dignità e la libertà. Un cittadino aperto al mondo, solidale con il mondo. Un cittadino naturalmente favorevole ai cambiamenti, ma attento a controllarne gli effetti perversi, così che diventino, per l’uomo, vettori di progresso. Infine, è un cittadino responsabile nei confronti degli altri, ma anche responsabile di se stesso». Chirac presentava così, in buona sostanza, quella moralità aperta, rispettosa, egualitaria, cosmopolita, progressista alla quale in questi decenni abbiamo dato il nome molto insoddisfacente di «politicamente corretto».
La moralità dell’ordine depoliticizzato ha un’ulteriore caratteristica: i cittadini di quell’ordine devono pure fidarsene, essere fermamente convinti ch’esso sia in grado di generare progresso, di garantire un futuro migliore. Qui non ho modo di presentare il ragionamento per esteso, ma il regime a bassa intensità di politica che abbiamo visto prender forma negli Anni Settanta del Novecento ed entrare in crisi una quindicina d’anni fa, ha la conformazione di una profezia che si auto-avvera: di quelle previsioni il cui successo dipende da noi, insomma, che si verificheranno soltanto se noi ci crediamo, e si riveleranno invece sbagliate se noi le riteniamo tali. Per questo il cittadino di cui parlava Chirac, oltre a essere rispettoso, cosmopolita e progressista, deve nutrire fiducia: perché, se dubita, il suo mondo verrà giù come un castello di carte.
L’insurrezione politica alla quale abbiamo dato il nome, anch’esso molto insoddisfacente, di «populismo» scaturisce in larga misura da una rivolta contro la moralità del politicamente corretto. Che si è presentata come una moralità oggettiva, universale, indiscutibilmente buona («è rimasta una sola divisione cruciale fra le genti della Terra … la linea che separa quanti abbracciano l’umanità comune che tutti noi condividiamo da coloro i quali la respingono», afferma Bill Clinton nel 1998, in Ruanda) – ma che, con ogni evidenza, tanto universale e oggettiva non è, e comunque non ha saputo mantenere le promesse che sono state fatte in suo nome. Gli studiosi del populismo hanno correttamente intuito la natura morale dell’idea populista di «popolo». Ma non sempre hanno compreso con altrettanta chiarezza fino a che punto questa moralità sia emersa come reazione speculare a una moralità precedente.
Poiché si muove sul terreno etico, il cosiddetto populismo aggredisce l’establishment con una retorica violenta e urticante: gli nega qualsivoglia legittimità, gode a violarne pubblicamente le regole e sfregiarne gli idoli, ne denuncia la corruzione e l’autoreferenzialità. Lo considera moralmente ripugnante, appunto. Per parte sua, l’establishment reagisce con moneta uguale e contraria: chi non accetta l’etica rispettosa, cosmopolita e progressista del politicamente corretto è un barbaro incivile e irrazionale, un pericolo mortale per la democrazia e la libertà. Non solo: poiché bisogna tenere in vita la profezia che si auto-avvera, perfino chi semplicemente si permette di dubitare che quell’etica sia sufficiente a garantire ordine e progresso, pur condividendola, dev’essere convertito e, se inconvertibile, ostracizzato. Bisogna non solo aderire, ma aderire con entusiasmo. Nessuno ha espresso con tanta chiarezza il rifiuto moralistico che l’establishment riserva ai populisti come Hillary Clinton, che nel 2016 definì gli elettori di Trump un «basket of deplorables», un mucchio di spregevoli.
Se il conflitto politico è diventato così aspro, in conclusione, è perché non è politico, ma etico. Com’è ben evidente, se il mio avversario politico non è una persona che, legittimamente, la pensa in maniera diversa da me, ma è un essere moralmente repellente, non potrò avere nei suoi confronti alcun rispetto o tolleranza, non potrò sopportarne la presenza, figurarsi dialogarci o raggiungerci un compromesso. La disabitudine al conflitto politico maturata nei decenni finali del Novecento ci impedisce di affrontare e gestire quest’asprezza e ce la fa sembrare più insopportabile ancora di quella del secolo scorso, malgrado quella fosse infinitamente peggiore. E se così è, la via per uscire dall’impasse nella quale ci troviamo non può che esser quella da un lato di riabituarci al conflitto politico, dall’altro di smettere di moralizzarlo.
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