Raid in Libano, strage di civili
Israele attacca ancora dal confine fino a Beirut: ucciso Qubaisi, comandante di Hezbollah. Le autostrade prese d’assalto da chi scappa a Nord, incubo grande invasione come nel 1982
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Fermate Israele. È l’appello disperato dei libanesi, la speranza, o meglio l’illusione. Perché i segnali non sono quelli del 2006, la guerra tra lo Stato ebraico ed Hezbollah. Sembrano piuttosto quelli del 1982, la grande invasione, la cavalcata dei carri di Tsahal fino a Beirut, alla valle della Bekaa, lo tsunami che avrebbe cambiato per sempre il Paese. La giornata di lunedì, la più sanguinosa da quarant’anni, seicento morti, quasi tutti civili, è lì a ricordarlo.
«Hanno colpito tutti, le case degli sciiti e dei cristiani – racconta Joumana da una località vicino a Baalbek, nella valle che è diventata la roccaforte principale del movimento legato all’Iran –. Ci sono centinaia di profughi, a Zahle hanno aperto le chiese per accoglierli, compresi i musulmani».
Zahle è il principale centro cristiano nella valle, ai piedi dei pendii ricoperti di vigneti. La convivenza tra cattolici maroniti e sciiti ha sempre avuto alti bassi, periodi di pace, guerre settarie, anche se qui i peggiori massacri di cristiani li hanno fatti i drusi, un’altra setta, fin dal 1860.
Da 15 anni, dal patto fra il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah e quello dei maroniti, il generale e poi presidente Michel Aoun, è cominciata una fase di alleanza. Che ancora regge, nonostante aumenti il risentimento verso i “persiani”, per una guerra non voluta, quasi imposta. L’Iran ne è consapevole e ieri all’Onu ha rovesciato tutta la responsabilità su Israele, colpevole di innescare «una guerra regionale che noi non vogliamo». E il presidente Masoud Pezeshkian ha ribadito alla Cnn che bisogna impedire che «il Libano diventi un’altra Gaza».
La giustificazione di Israele per i bombardamenti a tappeto, e cioè che nelle abitazioni si nascondessero «razzi e droni», viene invece accolta con scherno dai libanesi e fa montare una rabbia ancora più forte contro il “vicino del Sud”, così lo chiamano.
«Lo sanno anche le pietre che Hezbollah li ha nascosti nei tunnel, o nelle gallerie su nelle montagne verso la Siria. Volevano solo massacrarci, terrorizzarci e farci fuggire». È una fuga che fa assomigliare il Libano alla Striscia di Gaza. Secondo l’Onu dall’ottobre scorso all’inizio di settembre almeno 113 mila persone sono sfollate dal Sud, dal confine con lo Stato ebraico.
Ma con l’allargarsi dei raid fino a Beirut e alla valle della Bekaa il numero potrebbe sfiorare oggi i 200 mila. Migliaia sono arrivati nella capitale, che ha adibito scuole e grandi collegi per accoglierli. Ma anche qui non sono al sicuro. Ieri un nuovo bombardamento “mirato” ha ucciso sei persone, altre 15 sono rimaste ferite. L’obiettivo era il capo dell’unità missilistica di Hezbollah, Ibrahim Qubaisi, colpito a Dahiyeh, parola araba che significa semplicemente “periferia”, “banlieue”, e che definisce la Beirut sciita, un milione di abitanti e più, divisa in decine di quartieri, da quelli poveri alle zone residenziali dalle scintillanti ville con vista sul mare.
Ci sono tanti sciiti milionari, anche grazie agli intrallazzi con Hezbollah e Amal, l’altro partito sciita dell’immarcescibile presidente del Parlamento Nabih Berri, e sono quelli che più vorrebbero evitare l’invasione israeliana. In ogni caso la minoranza sciita, un terzo della popolazione libanese, circa due milioni di persone, non è più la massa di miserabili del 1982. E il Libano non è più quello di quarant’anni fa, scolpito nella memoria e nell’immaginario della classe dirigente israeliana, in gran parte reduci della guerra 1982-1983. Il Libano del “Valzer con Bashir”, dei falangisti maroniti parafascisti, amici di Israele e con un odio così profondo per i palestinesi arrivati in massa dopo il 1967, tale da portare al massacro di Sabra e Shatila.
Allora i maroniti di Bashir Gemayel guidavano i cristiani, e i cristiani erano quasi metà della popolazione, oggi sono solo un terzo. Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant non troveranno più quella sponda, se davvero vogliono arrivare a Beirut e in fondo alla valle della Bekaa.
E poi, come allora, ci sono i palestinesi. Mai integrati, chiusi nei campi profughi, vale a dire quartieri sgarrupati, incastrati tra il centro di Beirut e Dahiyeh, con i cavi elettrici neri che pendono come liane dalle case divorate dall’umidità. Ma molto meno odiati di allora. Non sono più gli arroganti feddayin di Arafat. Sono disarmati, senza mezzi e senza speranze. Sono più vicini ai libanesi, in fondo parlano lo stesso arabo con accento levantino, mangiano la stessa tabboule, l’insalata a base di prezzemolo che accompagna i pasti. In quel calderone che è il Levante le alleanze vanno e vengono. Ai tempi del valzer di Bashir anche gli sciiti erano contro i palestinesi, oggi sono nello stesso “asse della resistenza”, è possibile che vedremo qualche sparuta “katiba”, ossia battaglione, di Al-Fatah o addirittura di Hamas, combattere al fianco di Hezbollah.
Tutto cambia in fretta, nel Levante, i preconcetti conducono all’errore. In Cisgiordania, a Jenin, i combattenti della Jihad islamica si convertono uno dopo l’altro allo sciismo. I jihadisti palestinesi siriani, che hanno combattuto contro lo sciita Bashar al-Assad, ora si scambiano informazioni e forse armi, con l’alleato libanese Hezbollah.
È una commistione sempre più pericolosa per il Libano, invischiato dentro un destino di guerre regionali molto più grandi di lui. Come a Gaza, ieri l’Onu piangeva i suoi morti. L’agenzia per i rifugiati, Unhcr, ricorda Dina Darwiche, morta nell’area di Baalbek assieme a uno dei suoi due bambini, sotto le macerie della propria casa sventrata da un missile israeliano. E Ali Basma, un collaboratore dell’ufficio di Tiro. Un brutto presagio. Mentre si accumulano le macerie, si seppelliscono i morti e le speranze.
Netanyahu pensa a una cavalcata come nel 1982 ma il Libano è cambiato
Di Giordano Stabile, La Stampa
Fermate Israele. E’ l’appello disperato dei libanesi, la speranza, o meglio l’illusione. Perché i segnali non sono quelli del 2006, la guerra tra lo Stato ebraico ed Hezbollah. Sembrano piuttosto quelli del 1982, la grande invasione, fino a Beirut, alla valle della Bekaa, lo tsunami che avrebbe cambiato per sempre il Paese.
La giornata di lunedì, la più sanguinosa da quarant’anni, cinquecento morti, quasi tutti civili, è lì a ricordarlo. «Hanno colpito tutti, le case degli sciiti e dei cristiani – racconta Joumana da una località vicino a Baalbek, nella valle che è diventata la roccaforte principale del movimento legato all’Iran -. Ci sono centinaia di profughi, a Zahle hanno aperto le chiese per accoglierli, compresi i musulmani».
Zahle è il principale centro cristiano nella valle, ai piedi dei pendii ricoperti di vigneti. La convivenza tra cattolici maroniti e sciiti ha sempre avuto alti bassi, periodi di pace, guerre settarie, anche se qui i peggiori massacri di cristiani li hanno fatti i drusi, un’altra setta, fin dal 1860. Da 15 anni, dal patto fra il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e quello dei maroniti, il generale e poi presidente Michel Aoun, è cominciata una fase di alleanza. Che ancora regge, nonostante aumenti il risentimento verso i “persiani”, per una guerra non voluta.
La giustificazione di Israele per i bombardamenti a tappeto, è cioè che nelle abitazioni si nascondessero “razzi e droni”, viene invece accolta con scherno e fa montare una rabbia ancora più forte contro il “vicino del Sud”, così lo chiamano.
«Lo sanno anche le pietre che Hezbollah li ha nascosti nei tunnel, o nelle gallerie su nelle montagne verso la Siria. Volevano solo massacrarci, terrorizzarci e farci fuggire». E’ una fuga che fa assomigliare il Libano alla Striscia di Gaza. Secondo l’Onu dall’ottobre scorso all’inizio di settembre almeno 113 mila persone sono sfollate dal Sud, dal confine con lo Stato ebraico.
Ma con l’allargarsi dei raid fino a Beirut e alla valle della Bekaa il numero potrebbe sfiorare oggi i 200 mila. Migliaia sono arrivati nella capitale, che ha adibito scuole e grandi collegi per accoglierli. Ma anche qui non sono al sicuro. Ieri un nuovo bombardamento “mirato” ha ucciso sei persone, altre 15 persone sono rimaste ferite. L’obiettivo era a Dahiyeh, parola araba che significa semplicemente “periferia”, “banlieue”, e che definisce la Beirut sciita, un milione di abitanti e più, divisa in decine di quartieri, da quelli poveri alle zone residenziali dalle scintillanti ville con vista sul mare.
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