Di Simone Pieranni, il manifesto
«La Cina è una storia, il tianxia una teoria»: è la prima frase del libro “Sotto il cielo, tianxia” (Astrolabio Ubaldini, 2024, traduzione di Alessandra Lavagnino) di Zhao Tingyang, un filosofo politico cinese. In questo incipit abbiamo due elementi attualissimi: la Cina come “narrazione”, come “racconto”, quindi qualcosa di mutevole, cangiante e progressivo. Il tianxia come teoria, ovvero il recupero di un concetto attuale basato su un mondo interconnesso e pacifico (“sotto lo stesso cielo”), nel quale la Cina è al centro e non sopra (come lo sono gli Usa nell’ordine globale neo liberale a guida statunitense, per intenderci).
Zhao Tingyang è l’interprete di una teoria antica, diventata di recente retorica ufficiale. Se vogliamo semplificare: l’ordine mondiale nell’idea dell’attuale leadership di Pechino è il “tianxia”, un ordine paritario e pacifico, armonioso, in grado di sciogliere ogni nodo, grazie alla saggezza che scorre sotto il cielo, mediata dalla pacifica Cina.
È una visione, ovviamente, sinocentrica, ma ci pone anche di fronte a una teoria che poi è da ricercare e trovare all’interno della pratica, ovvero l’attuale postura internazionale della Cina. Partiamo da un esempio: la posizione cinese sulla guerra in Ucraina è stata fonte di molte preoccupazioni per Pechino: la decisione di non abbandonare la Russia, anzi di supportarla politicamente ed economicamente, pur dichiarando di non sostenere il suo sforzo bellico, ha notevolmente peggiorato l’immagine della Cina a livello internazionale.
Nel corso di questi due anni, però, proprio il nuovo assetto internazionale ha posto il Pcc di fronte alla necessità di spiegare e di elaborare una strategia internazionale capace di recuperare i cardini della sua politica estera e adattarsi al nuovo scenario. Ne sono emersi diversi documenti: prima il position paper a proposito della guerra in Ucraina (erroneamente considerato un piano di pace dalle nostre parti), poi un documento sulla sicurezza globale, poi uno sulla civiltà globale.
Da tutto questo è emerso un punto: Pechino ha ribadito la sua postura storica nei confronti del Sud globale, scoperto alle nostre latitudini proprio perché la guerra in Ucraina ha fatto emergere un mondo che noi non vedevamo (e ora che lo vediamo non è che siano molto cambiate le posture occidentali al riguardo) e che invece la Cina ha da sempre nelle sue varie posizioni internazionali modificate nel corso del tempo: sia ai tempi di Mao, in piena guerra fredda, sia durante l’epoca di Deng quando la Cina tendeva a mostrarsi piuttosto sobria nelle relazioni internazionali, sia nell’epoca pre Xi con Hu Jintao: proprio Hu, sottovalutato anche da gran parte della sinologia, aveva elaborato quattro pilastri che ancora oggi possiamo dire siano all’ordine del giorno.
I quattro pilastri erano: gestire il rapporto con le grandi potenze, gestire la propria area (l’Asia), ricordare la fondazione, l’origine, cioè il sud globale, utilizzare il multilateralismo come strumento. Ovviamente con Xi Jinping siamo in un altro mondo: la politica estera cinese mira a creare un ordine internazionale che ruota intorno agli affari, al commercio e non alla forma politica degli attori internazionali. E propone, ovviamente, la Cina al centro del tianxia.
Date queste premesse è emerso nel tempo un approccio tattico della Cina alla questione ucraino piuttosto chiaro, in realtà: supporto politico alla Russia in funzione anti-occidentale, una retorica che ha presa proprio nel Sud globale, composto da paesi memori di colonizzazioni e altre interferenze occidentali; tentativo di non incorrere in sanzioni e di mantenere relazioni seppure al minimo con l’Occidente, cercando di sfruttarne i cortocircuiti (Ungheria, Serbia, eccetera); non improvvisarsi mediatori ben sapendo che una mediazione tra Russia e Ucraina non era mai arrivata a un punto tale da fare pensare a una possibile soluzione mediata della guerra (considerando inoltre il probabile ostruzionismo americano in caso di un protagonismo più marcato della Cina).
Ora però è innegabile che le cose siano di nuovo fluide: la principale potenza mondiale è attesa da sei mesi di politica estera gestita da un presidente uscente e in grave difficoltà; nonostante i democratici possano competere con Trump per una vittoria, gli Usa sono percepiti al momento come “deboli”; anche l’Europa sente la “fatigue” (di meloniana memoria) di una guerra che sul campo è piantata e non sembra potersi risolvere militarmente.
Ed ecco che arriva l’invito al ministro degli esteri ucraino di recarsi a Pechino. E dalle tre ore di incontro tra Kuleba e Wang Yi, viene fuori una cosa finalmente importante: che Kiev è disposta a coinvolgere la Russia nei negoziati (se “in buona fede” ha specificato Kuleba, ma è già qualcosa). A margine dell’incontro sono arrivate anche le parole di Zelensky che di recente aveva tuonato contro Pechino e che invece nei giorni scorsi ha detto di fidarsi di Xi, delle sue parole sul fatto che la Cina non vende armi alla Russia.
Insieme all’incontro ucraino è arrivata anche “la dichiarazione di Pechino” di 14 fazioni palestinesi: un accordo fragilissimo e probabilmente senza futuro, ma che ha certificato la volontà della Cina di porsi come mediatore globale, rivendicando due cose: un ruolo come grande potenza, pari agli Usa, e un ruolo, si badi bene, da “facilitatore”. Come a dire, noi vi mettiamo intorno a un tavolo, poi però serve il vostro impegno. Noi, come Cina, sembra essere il sottotesto, non obblighiamo nessuno a fare niente. Non può essere considerata certo una politica estera disinteressata, ma quale paese eventualmente si muovo disinteressato? La proposta cinese è questa, che piaccia o non piaccia, che si sia d’accordo o meno: Pechino può essere mediatrice in un mondo che non è più unipolare. Almeno così lo è per la maggioranza dei paesi del mondo.
Nell’immagine: Il ministro dei esteri cinese Wang Yi