Di Rosalba Castelletti, La Repubblica
MOSCA — Nella pista dell’aeroporto di Ankara, in un inconsueto remake del Ponte delle Spie, si sono mossi in direzione opposta e contraria drappelli di uomini e donne che non potrebbero essere più diversi. Da una parte, detenuti politici russi ingiustamente incarcerati per aver lottato per la verità e occidentali e russi con doppia cittadinanza diventati loro malgrado pedine politiche. Dall’altra, assassini, spie, criminali informatici e riciclatori di denaro che non finiranno di scontare la loro pena. Uno scambio di prigionieri storico per numeri e portata geografica. Mai visto neppure ai tempi della Guerra Fredda. Ventiquattro detenuti in tutto. Sedici contro otto, più due minori. Ben sette i Paesi coinvolti: Russia, Bielorussia, Stati Uniti, Germania, Slovenia, Norvegia e Polonia. Più la Turchia che ha fatto da zona franca per quella che ha definito «la più grande operazione di scambio di prigionieri degli ultimi tempi». Sette aerei sono comparsi da Est e da Ovest, poi lo scambio che ha trasformato per un giorno l’aeroporto Esenboga di Ankara nel Glieniker Brücke del Terzo Millennio.
Tre statunitensi tornano a casa: il reporter del Wall Street Journal Evan Gershkovich detenuto dal marzo 2023 per tradimento, la giornalista di Rfe/Rl Alsu Kurmasheva arrestata lo scorso ottobre per fake news e il marine Paul Whelan incarcerato nel 2018. Vola invece a Berlino il tedesco Rico Krieger che lo scorso mese era stato condannato a morte e poi graziato in Bielorussia. E in Germania troveranno asilo anche nove detenuti politici russi tra cui gli oppositori Ilja Jashin, Vladimir Kara-Murza e Andrej Pivovarov, il cofondatore dell’ong Nobel per la pace Memorial Oleg Orlov, l’artista pietroburghese Sasha Skochilenko, le due ex collaboratrici di Navalny Natalia Fadeeva e Lilia Chanysheva. Mentre il presidente russo Vladimir Putin ieri ha accolto come “patrioti” all’aeroporto Vnukovo di Mosca il “killer del tiergarten” Vadim Krasikov che stava scontando l’ergastolo in Germania per l’omicidio di un dissidente ceceno-georgiano in esilio a Berlino, due agenti dormienti smascherati in Slovenia Artjom e Anna Dultsev insieme ai loro due figli, l’agente del Gru Pavel Rubtsov che si spacciava per il giornalista spagnolo Pablo Gonzales, l’hacker e figlio di un deputato Roman Seleznev, il riciclatore di denaro Vladislav Kljushin, la spia sotto copertura Mikhail Mikushin, il contrabbandiere Vadim Konoshchenok.
Si è chiuso così il più grande — e singolare — scambio di prigionieri tra Russia e Occidente. Più grande di quello del luglio 2010 quando dieci spie russe vennero barattate per quattro agenti detenuti in Russia. Segno di un dialogo possibile anche nel momento più basso delle relazioni causato dall’offensiva russa in Ucraina. Un accordo «non facile», ha confermato il governo tedesco restio fino all’ultimo a rilasciare il killer Krasikov, ma «necessario per aiutare le persone imprigionate arbitrariamente da Mosca e Minsk». Lo scambio scalfisce la retorica di Donald Trump e segna una vittoria per Joe Biden e per la sua vice ora candidata alla presidenza Kamala Harris che possono rivendicare di aver riportato a casa tre cittadini statunitensi e di aver scongiurato che altri detenuti politici russi innocenti facessero la fine di Aleksej Navalny morto in carcere lo scorso febbraio. Anche lui avrebbe dovuto fare parte dello scambio e non è un caso che ieri Harris abbia voluto chiamare la vedova Julija. Biden ha lodato «l’impresa diplomatica» portata a termine grazie alle «decisioni coraggiose e audaci» prese dai suoi alleati, in particolare la Germania, e al «sostegno logistico essenziale» della Turchia. «Oggi è un potente esempio del perché è fondamentale avere amici in questo mondo», ha detto parlando dalla Casa Bianca circondato dalle famiglie dei tre statunitensi e di Kara-Murza, vincitore del Pulitzer per i suoi commenti dal carcere sul Washington Post.
Vladimir Putin, invece, ha dimostrato che non abbandona chi gli resta leale, ma ha anche ulteriormente indebolito l’opposizione privando i suoi più illustri esponenti come Kara-Murza e Jashin del peso morale che dava loro la prigionia e accusandoli di complotti con l’Occidente. L’opera di discredito è già iniziata. «In Russia non ci sono prigionieri politici. Ci sono politici in Russia che hanno lavorato per Stati stranieri, nemici della Russia, che quindi hanno violato la legge. E sono stati scambiati nell’interesse di questi Stati», ha commentato ad esempio il politologo falco Sergej Markov. Mentre l’ex presidente Dmitrij Medvedev ha lanciato una velata minaccia: «Lasciamo che i traditori raccolgano febbrilmente nuovi nomi e si travestano sotto programmi di protezione dei testimoni».
A far ipotizzare a un imminente scambio era stata già a metà luglio l’inconsueta velocità dei processi che si erano conclusi nello stesso giorno con la condanna di Gershkovich a 16 anni di carcere e di Kurmasheva a sei anni e mezzo. Voci di un possibile scambio di prigionieri si erano poi susseguite frenetiche quando, all’inizio di questa settimana, gli avvocati di diversi prigionieri politici avevano denunciato di non avere più notizie dei loro assistiti. All’inizio si era pensato a un trasferimento da una colonia penale all’altra, come spesso accade, ma quando i detenuti che mancavano all’appello avevano sfiorato la decina in tanti avevano sospettato che ci fosse dell’altro. Ieri mattina la conferma. «Non riesco nemmeno a descrivere la felicità e il sollievo che questa notizia porta», ha commentato Emma Tucker, direttrice del Wall Street Journal. Anche Julija Navalnaja si è unita al giubilo: «Ogni prigioniero politico rilasciato è una grande vittoria e gioia. Nessuno dovrebbe essere tenuto in ostaggio da Putin, torturato e morire nella prigione di Putin». Resta però l’amarezza per un accordo arrivato troppo tardi per Navalny e per tutti gli altri detenuti politici ancora ostaggio di Putin. «È questo che non dobbiamo dimenticare», ha detto l’attivista Sergej Parkhomenko. «Oggi in Russia ci sono centinaia di prigionieri politici. Rimangono ogni giorno nelle mani del dittatore, in condizioni di tortura, in pericolo mortale».
Nell’immagine: la foto ufficiale pubblicata dalla presidenza degli Stati Uniti