Di Francesca Mannocchi, La Stampa
AL-AUJA (VALLE DEL GIORDANO). La Valle del Giordano ha due facce. Da un lato le palme secche, i campi aridi, gli animali in sofferenza. È la vita dei palestinesi. Dall’altro lato il volto degli insediamenti, che sembrano oasi in mezzo al deserto. Guidando lungo la valle si riconoscono dalle piante, verdi, rigogliose. È chiaro che lì arrivi acqua in abbondanza. È la vita dei coloni. Da un lato i bambini non hanno acqua da bere, né le loro madri per lavarli e lavarsi. Dall’altro bambini della stessa età nuotano in piscina e tutte le loro case hanno un allaccio alla rete idrica.
Sono le cinque del pomeriggio, l’aria è meno torrida, quando i pastori escono da Al-Auja, con i trattori che trasportano taniche. Sono diretti alla fonte d’acqua più vicina, ma non sono soli. A scortali un gruppo di attivisti israeliani che da anni li accompagnano. Chiamano il loro essere lì “presenza protettiva”, dovrebbe servire a scoraggiare i coloni più violenti che attaccano ripetutamente i beduini e il loro gregge.
La presenza protettiva è stata parte dell’attivismo contro l’occupazione in Cisgiordania sin dai primi anni 2000, quando organizzazioni come Ta’ayush e l’International Solidarity Movement hanno iniziato a portare attivisti israeliani e internazionali per aiutare i palestinesi a resistere agli espropri.
Da anni ormai, gli attivisti riprendono tutti gli abusi di cui sono testimoni e forniscono telecamere e registratori ai pastori.
Se gli abusi non sono documentati, dicono, è come se non fossero mai accaduti.
Il più anziano di loro, Guy Hirschfeld è stato arrestato due volte nell’ultimo mese. La prima volta l’hanno tenuto in cella due notti, e il giudice l’ha espulso dall’area delle condutture dell’acqua per quindici giorni.
Poi Hirschfeld ci è tornato, i soldati appena hanno visto la sua auto l’hanno bloccato, scortato in caserma a un’ora da lì e l’hanno trattenuto per una notte in attesa del giudice, che il giorno dopo ha deliberato che per altri cinquanta giorni dovrà restare ad almeno un chilometro e mezzo dai corsi d’acqua dove i pastori aspettano la distribuzione, quando è loro concesso averla.
«E’ la strategia dei soldati e dei coloni per convincerci a mollare. Fanno la stessa cosa coi palestinesi – dice Hirschfeld – i coloni credono che se rendono loro la vita abbastanza difficile alla fine decideranno da soli di andarsene. Così fanno con noi, pensano che se continuano a trattenerci in caserma desisteremo. Ma andiamo avanti».
Guy Hirschfeld ha fatto parte per molto tempo di Ta’ayush, un gruppo di volontariato israelo-palestinese fondato durante la seconda Intifada, uno dei pochi gruppi di israeliani che da anni mettono a rischio il proprio corpo in solidarietà con i palestinesi. Poi ha deciso di fondare la sua organizzazione Looking the occupation in the eye (guardando negli occhi l’occupazione) e la sua vita quotidiana è ormai dedicata ad accompagnare i beduini a pascolare o ad aspettare le cisterne dell’acqua per proteggerli dai soldati e dei coloni.
Alla domanda: perché lo fai? Risponde secco: perché ho un’umanità che non si arrende. Ha deciso di dare questo nome al suo gruppo perché durante le manifestazioni, anche quando incontrava persone più sensibili agli abusi subiti dai palestinesi, l’unica fonte delle loro informazioni erano i quotidiani progressisti. Troppo poco, secondo lui. «Non potete solo sapere, dovete guardarli negli occhi», ha detto loro. Così ha riunito dei volontari di Gerusalemme, altri di Tel Aviv e altri attivisti della Valle del Giordano e ha cominciato con loro a fare i turni nelle comunità più vulnerabili per dormire con i beduini per proteggerli dalle violenze dei coloni. Ha portato telecamere da montare sui container dell’acqua per documentare la distruzione sistematica delle loro riserve, le tende per i volontari, un ventilatore, e due volte la settimana passa la notte lì a fare la guardia.
Una frase dalla Bibbia che tiene con sé da quando era bambino recita: devi avere sempre di fronte ai tuoi occhi i più poveri, e aiutarli per primi. Per lui i più poveri, i più bisognosi del Paese in cui vive, sono gli occupati, cioè i palestinesi. È a loro che dedica attenzione e presenza. La sua presenza protettiva. «Stanno soffrendo a causa nostra e questo mi basta per essere qui».
Fino a quindici anni fa era difficile ma non si sentiva un reietto come oggi. Riusciva a essere un attivista e ignorare le critiche. Poi hanno cominciato a lasciarlo solo. Lo dice guardando l’insediamento alle sue spalle, Ytav, dove vive suo fratello che non gli parla da dieci anni. «Vorrei mostrargli il vero volto di Israele, quello che io vedo tutti i giorni, ma lui ha deciso di essere cieco».
La guerra dell’acqua
La lotta per l’accesso all’acqua in questa striscia di terra riflette una contesa più ampia per il controllo dell’intera Cisgiordania. I palestinesi considerano la Valle del Giordano il granaio di un futuro stato, per gli israeliani è la protezione del confine orientale.
L’accesso all’acqua qui non è uguale per tutti. E anche questa disputa ha una storia antica.Subito dopo aver occupato la Cisgiordania nel 1967, Israele ha preso il controllo del settore idrico palestinese e ha introdotto divieti e restrizioni radicali. Ha imposto ai palestinesi di chiedere permessi per perforare nuovi pozzi e ha utilizzato il nuovo accesso ottenuto alle fonti d’acqua, in particolare nella Valle del Giordano, per collegare tutti gli insediamenti costruiti in Cisgiordania alla rete idrica israeliana. Nella maggior parte della Cisgiordania, dove Israele mantiene il pieno controllo civile e di sicurezza, i palestinesi non possono scavare pozzi senza permessi e i permessi erano difficili da ottenere prima del 7 ottobre, ora praticamente impossibili. Quelli senza permessi, come le abitazioni, vengono demoliti. Secondo l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) dal 2021, le autorità israeliane hanno demolito quasi 160 serbatoi, reti fognarie e pozzi palestinesi non autorizzati.
L’anno scorso, le organizzazioni israeliane in difesa dei diritti umani avevano diffuso dei dati allarmanti: secondo Btselem, in Cisgiordania, gli israeliani consumano in media 247 litri di acqua al giorno a persona, cioè tre volte la quantità utilizzata dai palestinesi, 82,4 litri. Nelle (numerose) comunità palestinesi che non sono collegate alla rete idrica, il consumo medio giornaliero precipita a 26 litri a persona.
Israele giustifica le sue politiche citando l’accordo provvisorio siglato nel 1995 con l’Olp che dava a Israele il controllo sull’80% delle riserve idriche della Cisgiordania e sulla maggior parte degli altri aspetti della vita palestinese.
L’accordo, però, avrebbe dovuto restare in vigore per cinque anni, e la realtà della Cisgiordania da allora è profondamente mutata.
Dal 1995 la popolazione palestinese è cresciuta del 75% ma la quantità d’acqua che Israele permette loro di usare è rimasta la stessa. Perciò, per tentare di compensare la carenza, l’Autorità palestinese è stata costretta ad acquistare l’acqua dalla compagnia idrica nazionale israeliana, la Mekorot, a un costo rialzato.
Così, oggi, i 700 mila coloni che vivono in Cisgiordania sono collegati alla sofisticata rete idrica israeliana che fornisce loro acqua ininterrottamente ma non i palestinesi che sopravvivono se e quando è consentito ai camion il trasporto d’acqua.
Per Guy Hirschfeld anche in questo giace la disumanizzazione nei confronti dei palestinesi: «il governo del mio Paese sta usando le risorse basilari come mezzo di controllo, anche il controllo dell’acqua è uno strumento per raggiungere obiettivi politici. Si rende invivibile l’esistenza di intere comunità, affinché lascino le loro terre. Per i coloni prima se ne vanno, prima queste terre possono essere espropriate».
Intanto, anche nella Valle del Giordano come nel resto dei territori occupati, continuano gli espropri. A marzo Israele ha sequestrato otto chilometri quadrati di terra per creare nuove unità abitative, cioè nuovi insediamenti. Il ministro delle finanze, colono ed esponente dell’ultra destra sionista, ha detto a commento: «Così continueremo a costruire e rafforzare la Valle del Giordano, stiamo rafforzando gli insediamenti attraverso un lavoro serio e strategico in tutto il paese». D’altronde l’annessione della Valle del Giordano è stata una delle promesse elettorali di Netanyahu nel 2020. Guy Hirschfeld e gli altri attivisti pensano che la strategia israeliana sia quella di isolare la Valle del Giordano dal resto della Cisgiordania. Più si espandono gli insediamenti, meno sarà possibile continuare a teorizzare uno Stato palestinese.
Hirschfeld ha perso nel tempo quasi tutti i suoi conoscenti e la sua famiglia, ma resta convinto che la democrazia e la libertà non possano essere appannaggio di un solo popolo. Dopo il 7 ottobre pensa che sia ancora più necessario portare gli israeliani nelle comunità palestinesi, perché vedere e conoscere è l’unico antidoto alla guerra perpetua.
L’ultima persona che si è unita al suo gruppo è Gili, ha 21 anni e ha perso un amico al Nova Festival, ucciso dai miliziani di Hamas. Suo padre è un elettore di Netanyahu. L’ha educata con frasi come “l’unico arabo buono è l’arabo morto”. Le prime settimane ha sentito, come molti, crescere dentro di sé un solo sentimento: il desiderio di vendetta.
Poi un giorno si è domandata: chi sono davvero i palestinesi? cos’è davvero la mia terra? La nostra terra.
E ha deciso di andare nella Valle del Giordano con Guy. Non era mai stata prima in una comunità palestinese, non aveva mai visto come vivono. Di cosa sono privati. Da allora tre giorni a settimana accompagna i beduini a prendere l’acqua.
Nell’immagine: Guy Hirschfeld