Trump, il pugno, e noi strabici
Altre riflessioni sulla fotografia che stravolge le elezioni Usa
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Altre riflessioni sulla fotografia che stravolge le elezioni Usa
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• – Redazione
Altre riflessioni sulla fotografia che stravolge le elezioni Usa
A caldo, per Repubblica, avevo scritto una piccola analisi del carico simbolico della foto che Evan Vucci di Ap ha preso alla reazione di Donald Trump dopo l’attentato in Pennsylvania. La ripropongo perché la trovo ancora valida, ma aggiungo qualche considerazione in più, dovuta anche agli scambi di opinioni con tanti amici.
La didascalia, inevitabile, l’ha dettata in diretta Donald Trump Jr., il figlio: “Papà continua a battersi per l’America!”. Se questa fotografia farà vincere le presidenziali a Donald Trump, non potrà mai essere dimostrato. Ma l’inquadratura bloccata da Evan Vucci, grande professionista dell’immagine, ha una potenza simbolica da storia del fotogiornalismo. Ogni dettaglio obbedisce a una logica metaforica stringente e impone una lettura obbligata e irresistibile. L’occhio si posa per prima cosa sul volto di Trump, sul suo grido di battaglia da capo Apache, con il sangue che gli disegna pitture di guerra sul volto. Poi risale lungo il suo braccio fino al pugno chiuso, aggressivo, sfidante: sono vivo, non mi avrete!, per accorgersi subito che quel pugno sembra anche afferrare un filo immaginario che trattiene dal volare via la bandiera americana, con un gesto a metà fra Delacroix e il Settimo Cavalleggeri; e la bandiera è rovesciata: dunque la patria è in pericolo!
Tre agenti della scorta sono piegati, protettivi come una corazza, ma anche apparentemente terrorizzati, e la loro postura esalta la spinta ascendente e impavida del corpo del leader: più che difenderlo, sembrano trattenerlo dall’aggredire i suoi aggressori. Un quarto agente guarda in camera, e il tradizionale errore rovina-foto qui invece aggiunge un altro elemento di forza: quello sguardo da dietro gli occhiali scuri che lo identificano come sguardo professionale, interpella lo spettatore, si rivolge singolarmente a lui come a chiamarlo a testimone, lo tira dentro l’evento. Perfino quell’asta della bandiera a sinistra ha un ruolo: inclinata verso il ferito che sembra sostenerla col braccio per impedirle di cadere (o forse per raddrizzare la sorte avversa), riporta alla memoria anche dell’americano più distratto quell’altra asta inclinata di una bandiera a stelle e strisce, quella che fu issata sulla cima del monte Suribachi, a Iwo Jima, il 16 marzo 1945, dai marines, nel corso di una delle battaglie più sanguinose della guerra nel Pacifico, una scena che la fotografia di Joe Rosenthal rese immortale matrice di centinaia di repliche e perfino di monumenti.
C’è un’idea di una certa America in questa foto, ce n’è perfino troppa, più di quella che la figura di Trump merita di incassare e portare a casa. Evan Vucci non è un fotografo qualunque. Assieme ai colleghi dell’Associated Press vinse nel 2021 il premio Pulitzer per la copertura delle proteste contro l’omicidio Floyd, il nero soffocato dalla polizia. Da tempo segue la campagna elettorale di Trump, come seguì quella di Bush. Questa tappa a Butler, Pennsylvania, era per lui l’ennesima un po’ noiosa replica di tante occasioni già fotografate mille volte. Ma la storia può annidarsi in ogni momento.
Racconta: “Ero sulla sinistra del palco, ho sentito un crepitio sopra la spalla sinistra, e ho capito subito che stava accadendo un momento della storia americana che doveva essere documentato”. Prima sale sul palco, poi capisce che il punto di vista giusto è un altro, allora corre sul lato destro (nel video dell’attentato lo si può vedere, in basso), dove c’è la scaletta, sicuro che la scorta lo porterà giù da lì. Ed è quello che succede. Inquadra in grandangolo, la scena si curva e si chiude attorno alla figura del ferito. A chi gli chiede se è cosciente di aver creare un’icona formidabile per la propaganda di Trump, risponde: “Ho fatto quel che deve fare un fotografo”. Il resto l’ha fatto l’istinto micidiale di un animale politico, che in pochi secondi ha creato l’antitesi perfetta del finale menagramo del film Civil War di Alex Garland, dove il presidente infedele viene giustiziato sul campo.
Ha scritto Colin Pantall, analista e docente visuale britannico: “Questa fotografia era fiction ancora prima di essere pubblicata”. Osservazione raffinata. Direi: ancora prima di essere scattata. Trump, agendo con il suo fiuto innegabile di uomo di scena, ha costruito la sua posa in forma di immagine, già sapendo che un fotografo l’avrebbe resa tale. Con quale potenza è accaduto, mi sembra di averlo spiegato qui sopra.E questo ovviamente ripropone un dilemma etico che disturba l’intera storia del fotogiornalismo. Che cosa deve fare un fotoreporter quando si trova davanti a un evento appositamente costruito per diventare immagine, anzi per diventare immagine di propaganda politica? Premere il pulsante di scatto trasforma in questo caso il fotografo in un obbediente esecutore di un piano mediatico?
Pantall contrappone alla fotografia di Vucci la copertina di Libération che vi mostro qui. Il giornale francese ha scelto un’altra fotografia Ap, ben diversa, e l’ha pesantemente rifilata e sovrascritta. Una in cui, cito Pantall, “splende il volto stile carne tritata pieno d’odio di Trump”. Ma questo, appunto, è l’effetto di un deciso intervento di editing, che trasforma radicalmente la fotografia originale. Quindi per evitare le fotografie a rischio propaganda bisogna negare le fotografie, incatenarle, mutilarle, commissariarle?
La copertina di Libération
Quello che dice Pantall ha un senso. Il problema è reale. Ma la soluzione non mi convince. Come sottrarsi alla costruzione di senso che viene imposta con spietata efficacia da Trump? Rifiutarsi di scattare? Non fare quella foto avrebbe significato negare la registrazione di quello che è, comunque la vogliamo mettere, un momento della storia, cioè la sua risposta forte e astuta all’attentato. Sostituire la foto dell’evento con una simbolica, che mette da parte gran parte dei suoi doveri di informazione sui fatti e si trasforma in una forma di critica visuale? Ma questo sostanzialmente significa sostituire la cronaca con l’editoriale. Per quanto sappiamo ormai da tempo che nessuna cronaca è neutrale, c’è ancora una differenza tra raccogliere e fornire informazioni su un evento (e questo, la fotografia di Vucci lo fa: ci dice come Trump ha costruito la sua reazione all’attentato) e intervenire criticamente, analiticamente sul suo significato.
La via d’uscita è fare foto di cronaca diverse? Sicuramente dovremmo provarci. Ma si può fare una fotografia del momento di astuta resilienza di Trump evitando in modo netto che diventi un pezzo di propaganda per Trump? Francamente, non lo so. Qualche mese fa avrei giurato che la fotografia segnaletica di Trump arrestato (una fotografia che si pretende, e ovviamente non è, interamente documentaria e funzionale), con quello sguardo sprezzante che l’ex e futuri presidente scocca alla lente, sarebbe diventato un “pezzo” decisivo della sua campagna. Ovviamente, adesso ne ha uno ben più potente. Vedo sicuramente l’automatismo del fotografo che ricorre d’istinto, in momenti concitati, agli strumenti, ai linguaggi compositivi, agli stratagemmi introiettati ed ereditati da una intera tradizione fotogiornalistica. Linguaggi che la politica conosce bene e sa mettere al proprio servizio.
Ma quali sono quelli alternativi? Ne abbiamo? La soluzione sarebbe suggerire ai fotogiornalisti di spingere fortemente sul pedale della critica semiologica istantanea? Addestrarli a farlo? E anche ammesso che lo sappiano fare, siamo sicuri che sia giusto chiedere alla fotografia giornalistica di hard news di correggere o annullare sul campo i messaggi costruiti dai protagonisti della storia? Le mie sono domande aperte, reali e non retoriche. Diffiderei di risposte troppo certe. Molti commentatori raffinati hanno detto di preferire un’altra immagine iconica dell’evento: quella che la fotografa Anna Moneymaker di Getty ha colto attraverso le gambe della scorta di un Trump chinato, sofferente. Sicuramente una foto di grande impatto emotivo e forza visuale, ma è un’immagine consolatoria per gli avversari di Trump. Ce lo mostra come segretamente molti vorrebbero che fosse rimasto: domato, piegato, sconfitto dal trauma. I minuti successivi hanno dimostrato che la storia è stata diversa. Anche in questo caso ha funzionato il riflesso condizionato, ma in un altro senso: qui vince la retorica romantica del leader sofferente. Ma chi si sente di dire che questa fotografia sia più vicina al senso dell’evento di quella di Vucci? Non credo in ogni caso che il problema sia soprattutto o solo il riflesso condizionato del fotografo.
Entra in gioco quella che Clément Chéroux ha chiamato diplopia: cioè quello strano strabismo che fa sì che i media scelgano tutti concordemente pochissime fotografie iconiche di un certo evento, quelle che più richiamano una retorica del già visto, senza esplorare tutte le possibilità alternative. In questo modo, dice Chéroux, i media diventano “parte dell’arsenale del terrore”. O della politica che lo sfrutta. La ripetizione strabica di immagini che richiamano altre immagini, che lo studioso francese chiama intericonicità, riconduce la storia alla fiction nelle forme più scontate (Chéroux dice hollywoodiane, ora dovremmo cominciare a dire netflixiane). Forse allora la strada è pubblicare più fotografie, diverse, contraddittorie, non coerenti. Disinnescare la perentorietà dell’immagine unica che diventa cliché, offrire al lettore la possibilità di esplorare un ampio corpus di immagini: allargare il campo del visibile e non selezionare contro-immagini che rischiano di essere semplicemente lo specchio documentario di una retorica altrui.
Nell’immagine: la foto iconica
Muti i filosofi e i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi, le istituzioni relegate in un angolo. Dissolto il velo d’ipocrisia, la grande politica è tornata a...