Ucraina di Zelensky. L’equivoco tra difesa e offesa
Il popolo aggredito è colpevole di difendersi, o comunque dovrebbe farlo altrimenti
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Il popolo aggredito è colpevole di difendersi, o comunque dovrebbe farlo altrimenti
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Il popolo aggredito è colpevole di difendersi, o comunque dovrebbe farlo altrimenti
Ci sono cose difficili da dire, ma inevitabili da pensare. L’opinione pubblica si era già divisa sulla coppia pace-guerra, oggi torna a separarsi sull’antitesi difesa-offesa. Non si tratta esattamente della stessa cosa, perché ognuna delle parole in questione ha un suo senso e un suo peso. Il concetto di pace è talmente virtuoso eticamente che sbaraglia il campo, silenzia il contraddittorio, è sovraordinato nel discorso pubblico per il suo evidente “plusvalore” morale, civile e politico. Siamo cioè di fronte a un universale, un assoluto tra i pochi che ci restano, perché tutti scegliamo la pace invece che la guerra, fosse anche soltanto per l’egoismo della nostra tranquillità personale. Ma quell’assoluto, nell’aggressione subita dall’Ucraina e nell’occupazione russa che ne è seguita, ha incontrato contraddizioni con cui abbiamo dovuto tutti — o quasi — fare i conti.
Poiché la guerra è un’evidente responsabilità di Mosca, che ha deciso di violare l’ordine internazionale, gli equilibri europei e la libertà di un Paese sovrano, la reazione generale immediata e automatica è stata di solidarietà con l’Ucraina. Solidarietà in parte concreta, in parte di facciata: perché appena l’Ucraina ha cercato di difendersi, dimostrando di poter e voler resistere al nemico in un rapporto di forze sproporzionato, una buona fetta di quel sostegno è evaporato, insieme con il giudizio di condanna sull’aggressore: che pure resta tale anche mentre il tempo passa, il giogo dell’occupazione diventa più pesante, e solo la condanna si indebolisce. Questo pentimento solidale naturalmente è avvenuto nel nome della pace, coprendo con quella bandiera un’inversione morale e una bestemmia politica. Cambiando completamente segno si è infatti trasformato in un atto esplicito d’accusa al governo ucraino, addossandogli l’intera responsabilità di protrarre il conflitto all’infinito.
Dunque secondo questo schema il popolo aggredito è colpevole di difendersi, o comunque dovrebbe farlo altrimenti, sapremmo ben noi insegnargli come, anche se non si capisce a che titolo. Resistendo al sopruso — che colpisce regole e valori di tutto l’Occidente, ma s’incarna nei corpi violati e nelle città distrutte d’Ucraina — il governo di Kiev manda anzi al macello il suo stesso popolo, e per superbia e protervia alza il costo umano e civile della guerra, allontanando sempre più Russia ed Europa, che pure un giorno dovranno tornare a parlarsi. Conclusione: la pace è a portata di mano (non si dice mai esattamente a quali vergognose condizioni, legalizzando l’abuso e fondando un nuovo ordine mondiale basato sul disordine della forza), basta finirla con l’esibizionismo e la mimetica di Zelensky, farlo infine ragionare o meglio ancora detronizzarlo, accettare il fatto compiuto, e vivere in una nuova geografia politica in continuo movimento, disegnata dai cingoli dei tank in un’occupazione che crea il diritto del nuovo secolo.
Ma è questa la “pace” che vogliamo? La pace del 1945 discendeva dalla vittoria militare su Hitler e dallo slancio di libertà della Resistenza, quindi dalla coscienza del valore di una riconquista della democrazia: da questo impegno e da questa consapevolezza sono nate nella pace di allora le Costituzioni, i diritti e le istituzioni che hanno costruito e governato i nostri Paesi nella pace e nella libertà. Cosa può nascere oggi da una pace firmata a mani alzate dall’aggredito, mentre l’impero che ha perso la guerra fredda si prende in Ucraina la rivincita sull’intero Occidente? E quale sarà la proiezione istituzionale e morale di questa pace umiliata nell’Europa di domani, in cui vivranno i nostri figli? Per loro prepariamo oggi un futuro in cui sarà smarrita anche l’ultima regola comune, qualsiasi codice condiviso di regolazione dei conflitti, qualunque sede di giudizio e ogni autorità riconosciuta di conciliazione, tutti i criteri di distinzione tra il bene e il male: in un continente che dopo la guerra ci apprestiamo a rifondare sull’arbitrio, nuova pietra angolare d’Europa.
Dunque c’è pace e pace, l’assoluto del concetto morale resta tale, ma non si sminuisce se associa a sé l’elemento della giustizia, per rafforzare l’obiettivo da raggiungere. Ora rispondiamo a una domanda: cosa serve di più al ripristino di un’Europa libera e civile, una pace qualunque, imposta dall’Armata occupante, o una pace giusta? La risposta è evidente, solo l’ideologismo di chi schernisce le regole di convivenza (perché in realtà disprezza la democrazia) può pretendere la capitolazione del Paese vittima, oppure chi ha già scelto il vincolo gregario di servitù nei confronti di Putin, come campione del prossimo modello di “democrazia dispotica”, quindi un esempio virtuoso per tutti i leader neo-autoritari e il loro folto seguito. Le due tendenze sono più vicine l’una all’altra di quanto sembri a prima vista: a entrambe manca la condivisione del valore della democrazia garantita in Europa fino ad oggi, pur tra errori e infedeltà. Mettiamo dunque agli atti che chi vuole la resa ucraina non lavora per la pace ma per l’aggressore, ha già scelto il più forte, mina le basi dell’equilibrio futuro con il mal sottile dell’eterna realpolitik.
Ora giunge l’invito a fermare o disarmare i raid ucraini d’incursione nel territorio russo. Mai dal campo della pace-resa è arrivato un simile invito al Cremlino, che ha fatto ciò che ha voluto nei territori occupati, conquistati e annessi, fermato o rallentato solo dalla resistenza della popolazione ucraina, sostenuta tra mille distinguo dai Paesi occidentali, tra cui l’Italia. Cioè, noi accettiamo obtorto collo di sostenere Kiev, purché combatta ad handicap: può difendersi ma non contrattaccare, le scelte strategiche dei generali di Putin sono libere e tutte permesse, quelle di Zelensky sono contingentate. In sostanza può battersi contro chi gli è entrato in casa, ma con un braccio legato dietro la schiena: la nostra solidarietà si concretizza nell’imposizione di un dislivello, con tanti saluti a chi deve pagarne il prezzo, mentre Mosca ringrazia. Questo limite unilaterale viene fatto discendere dall’articolo 11 della Costituzione, col “ripudio” della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma questo sacrosanto “ripudio” non può iniziare oggi, dalla risposta ucraina con le incursioni in terra russa: valeva anche prima — quando nessuno invocava l’articolo 11 — , nel momento cioè in cui é cominciata “l’offesa alla libertà” di un popolo, con l’invasione.
La realtà dei fatti testimonia tempi, modi e responsabilità delle parti in causa, e anche di chi vuole chiudere oggi il conflitto non ad ogni costo, ma con un costo ben preciso a danno di uno solo dei due contendenti, con i morti altrui condonati e con un Paese sovrano mutilato. Amnistiare fin d’ora l’imperialismo russo non è il modo migliore per arrivare a un negoziato e per riprendere in prospettiva un dialogo con Mosca. Dopo il conflitto e una pace equilibrata per cui bisogna lavorare fin d’ora, mentre si aiuta Kiev a resistere, il vero dialogo nascerà solo dalla capacità dell’Occidente di coinvolgere la Russia in un nuovo piano di sicurezza europeo che riconosca il suo peso e il suo ruolo, e dissolva l’incubo russo in cui gli Stati Uniti e la Ue vogliano smembrare il Paese per annullarne la storia. Ma è oggi, adesso, che si decide con l’esito della guerra la sorte dell’Europa di domani. E la domanda finale è evidente: siamo già giunti al punto, quasi un secolo dopo Monaco, in cui i destini della pace e della democrazia debbano separarsi dopo che per anni ci hanno garantito uniti progresso, crescita e diritti nella libertà europea?
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