Di Lucio Caracciolo,
La Repubblica
Per cogliere l’effetto dell’incursione ucraina in Russia c’è un solo indicatore vero: la faccia di Putin durante le riunioni del gabinetto di guerra. Autoritratto di un leader che stenta a trattenere — almeno in pubblico — l’ira per l’incompetenza dei suoi apparati, sorpresi con la guardia bassa dalla mossa del cavallo escogitata da Zelensky e dai suoi consiglieri/controllori americani e britannici. Non proprio faccia da poker, a smentire gli stereotipi che in quanto spia lo vogliono “pesce freddo”.
Poco ma sicuro: a tempo debito — Putin detesta reagire a caldo perché teme di finire a rimorchio degli eventi — molte delle teste sedute intorno al suo tavolo salteranno. L’alternativa, oggi assai improbabile, è che salti la sua. Come salterebbe forse quella di Zelensky se l’avanzata volgesse in rotta, con il sacrificio delle migliori fra le truppe ancora a disposizione per non crollare nel Donbass.
Se anche gli ucraini fossero respinti oltrefrontiera nel giro di qualche settimana la violazione del territorio patrio è una ferita che resterà profonda nel cuore dei russi. Uno sguardo a Telegram e agli altri canali con cui in Russia si diffondono le proprie opinioni misura lo sconcerto della popolazione.
I brani delle riunioni d’emergenza al Cremlino trasmessi dalla tv, per quanto editati, provano che il regime sente la pressione al punto di mettere in piazza il suo nervosismo, come quando Putin interrompe il governatore di Kursk perché snocciola il numero delle località occupate (il 13 agosto 28) e altri dettagli militari. Qualcuno vorrebbe spingere il presidente a scatenare la guerra fuori tutto. Gestire una nuova mobilitazione, pur parziale, sarebbe però un’operazione ad alto rischio.
L’apertura del fronte di Kursk conferma una tendenza tipica di molti conflitti: quando i contendenti sentono avvicinarsi la resa dei conti, la sparano grossa. In ogni senso. La propaganda tocca il culmine. Tutto è bianco o nero. Gli eserciti cercano di spingersi il più avanti possibile. Obiettivo: incrementare il capitale spendibile al tavolo negoziale.
Quasi tutti danno per scontato che dopo le elezioni americane si tratterà sul serio, forse sopravvalutando l’impegno e le capacità di Trump o di Harris. Resta il fatto che questo è l’orizzonte immediato su cui ragionano Putin e Zelensky. Ed è su questo che conviene orientarsi. Vale specialmente per noi italiani e per gli altri europei finora (auto)esclusi da qualsiasi ruolo politico, ridotti a fornitori di armi su cui non abbiamo controllo.
È il momento di stabilire quel che possiamo volere e farlo valere non tanto per accelerare la sospensione della guerra — qui possiamo men che poco — quanto per prepararci al dopo. Quando i disastri strutturali — umani, geopolitici ed economici — finora nascosti dalle opposte propagande verranno al pettine. Per esempio, come gestire il dopoguerra nell’Ucraina libera dai russi, per evitare che diventi un buco nero percorso da bande criminali. Un’enorme appendice dei Balcani, ad aggravare instabilità e contendibilità dello spazio che divide l’Italia dalla Federazione Russa.
Nel dopoguerra l’Ucraina dovrà recuperare il minimo di soggettività necessario a difendere i propri interessi. Oggi dipende totalmente da quelli altrui. Dalla disponibilità americana ed europea a rifornirla di armi e soldi. Da Stato in via di fallimento, se non fallito, deve risalire verso quel grado di sovranità senza di cui resterà sempre esposto alle intenzioni di chi vuole usarlo per i propri fini.
L’Ucraina è stata integra e relativamente indipendente dal 1991 al 2014. Non lo è più. L’obiettivo dei prossimi dieci anni è tornarlo davvero, anche a costo di perdere di fatto parte del territorio canonico cui mai rinuncerà in punto di diritto. Ciò di cui i dirigenti ucraini sono da tempo coscienti e di cui trattano con gli interlocutori amici e/o rilevanti, ma evitano di esporre in pubblico.
Il compromesso territoriale è fattibile. Al netto delle aree russe oggi penetrate dall’incursione ucraina, l’attuale linea del fronte lascia infatti alla Russia spazi abitati quasi interamente da russi, filorussi o opportunisti. All’Ucraina una geografia umana meno disomogenea di prima.
Il punto critico è lo status dell’Ucraina ridotta forse di un quinto del territorio e di metà degli abitanti che aveva nel 1991 (da 51 milioni a 25). Kiev pretende una garanzia di sicurezza da Washington e alleati. L’esperienza di questi anni, con americani, britannici e altri nordici che a parole spingevano gli ingenui leader ucraini verso la Nato mentre nei fatti precostituivano l’impossibilità di ammettervela scoprendo all’uopo l’informalità delle istituzioni e la precarietà della locale democrazia, non promette bene.
Rimane a Kiev l’avvio delle procedure di adesione all’Unione Europea, ottenuto in deroga alle regole d’ingaggio opposte da Bruxelles agli aspiranti consoci balcanici, serbi in testa. Prospettiva necessaria per convogliare risorse senza cui non è possibile concepire la riabilitazione di un Paese semidistrutto non solo materialmente — specie nelle infrastrutture energetiche — ma soprattutto nella componente umana. Con 25 o anche 30 milioni di ucraini non si ricostruisce la patria battezzata dai 51.
Caveat finale, da soci fondatori della famiglia comunitaria: meglio non fidarsi troppo delle promesse europee. Difficile non intravvedervi un fondo di cinismo. I costi dell’ammissione di Kiev sono insostenibili per l’Ue nella configurazione geopolitico-finanziaria vigente. Il tasso di solidarietà con le vittime dell’Orso è e sarà in calo fisiologico. Il tempo contro l’Ucraina, l’Ucraina contro il tempo.
Nell’immagine: soldati ucraini nella regione di Kursk