Un “Diesel” dietro alla cinepresa
Un ricordo del regista R(T)SI Gianluigi Quarti a dieci anni dalla scomparsa
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Un ricordo del regista R(T)SI Gianluigi Quarti a dieci anni dalla scomparsa
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Un ricordo del regista R(T)SI Gianluigi Quarti a dieci anni dalla scomparsa
Bellunese di nascita, era da alcuni soprannominato “Diesel” per il suo carattere riflessivo, apparentemente un po’ chiuso, poco propenso agli atteggiamenti sin troppo esuberanti e recitati di altri colleghi. Una carburazione lenta ma progressiva, la sua. Quando affrontava un nuovo progetto, tratteneva, nei confronti del mondo esterno, l’entusiasmo e la passione che lo animavano, per poi svelarli cammin facendo, riuscendo a contagiare l’intera squadra e a coinvolgerla in tutte le fasi produttive. E quando durante una produzione appariva (come capitava sempre) qualche piccolo o grande problema c’era lui a tenere saldo il timone, con la sua calma granitica.
Quarti ha saputo costruirsi, in 30 anni d’attività, una rete di contatti solidissima e preziosa (da Beppe Grillo, con cui ha realizzato due documentari nel 1995 e nel 1998) a Fosco Maraini a Mauro Corona (L’uomo di legno, del 1996) al nostro Romolo Nottaris, con cui ha anche pubblicato un libro), soprattutto, ma non esclusivamente, nel settore della montagna, dell’avventura, dell’esplorazione, dei viaggi. Tenente degli Alpini, alpinista egli stesso, membro onorario del Club Alpino Italiano (ma anche appassionato di mare: era un provetto skipper), sono una quarantina i documentari da lui firmati, molto spesso premiati in festival del settore. come quello di Trento.
In RSI Quarti ha avuto ruoli importanti, spesso determinanti, in alcune rubriche diventate “storiche”, in particolare le molte stagioni del programma estivo Sottosopra (insieme a Fulvio Mariani), che nel 2024 taglia il traguardo della tredicesima edizione, e in alcuni documentari presentati nell’ambito del settimanale Storie. Proprio Sottosopra gli ha dedicato, lo scorso 28 maggio, un toccante documentario [inizio a 27’37”] che raccoglie una serie di testimonianze di persone che lo hanno conosciuto e frequentato, tanto sul lavoro che in privato.
Dal canto nostro pubblichiamo il ricordo affettuoso di uno dei suoi colleghi e compagni di lavoro (e collaboratore del manifesto e di Naufraghi/e), Gianni Beretta.
Che a Giangi, grande regista e artefice di avventurose spedizioni, il sottoscritto debba sterminatamente è quasi banale affermarlo.
Prima di conoscerci avevo avuto qualche analogo vissuto minore. Il primo è la passione sin dall’adolescenza per l’arrampicare. Certo non al suo livello. E poi l’aver fatto entrambi il corso allievi ufficiali di complemento alla Scuola Militare Alpina di Aosta (SMALP); per finire entrambi al VI° Reggimento Alpini in Val Pusteria per il cosiddetto periodo di comando (da sottotenenti). Naturalmente io qualche anno dopo, visto che tra lui e me ci correva un decennio. Da ultimo, se Giangi nel 1987 accompagnò il mitico Riccardo Cassin a rifare 50anni dopo la parete nord/est del Pizzo Badile, il sottoscritto vent’anni prima in uno stracolmo cinema Pax di Cinisello Balsamo (mi pare in II media) vinse un concorso per il miglior tema sulla montagna. E destino volle che a premiarmi fosse proprio Cassin, che mi regalò un libro con dedica su “La Sud del McKinley” che aveva appena asceso (e di cui presentò un filmato). Al riguardo confessai a Giangi (ricevendone una grassa risata) che in quello scritto avevo copiato la didascalia della foto di un rocciatore riportata sull’antica Enciclopedia Mondadori in cui si diceva più o meno: “l’alpinista scruta ogni appiglio prima di aggrapparvisi”.
È Bruno Bergomi che ci presenta, nei locali della in RTSI, a fine anni ’90 quando mi ero appena affacciato al giornalismo televisivo. Giangi era intrigato dal mio vissuto oltre Atlantico. Anche se in realtà il primo lavoro che facemmo insieme (nel 2001) fu su Saverio Tutino e l’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano (Arezzo) da lui fondato. Lo intitolammo “In Prima Persona” e racconta tre storie scritte a cavallo dell’Italia e della Svizzera. Fu in assoluto il mio primo documentario. Per di più riuscito, certo non per merito mio, senza voce narrante. Con alle spalle appena qualche tg, corti su svizzeri in Centroamerica e un paio di reportage per il magazine Falò, mi ero limitato ai contenuti (preparazione, interviste e gestione durante la filmazione). Al montaggio, dove si creano i film, fece tutto lui (con editor Samuela Rinaldi). Mentre l’indegno coautore si limitava in silenzio a imparare.
Successivamente partimmo per il Guatemala dove realizzammo “Meglio morti che vivi”: la storia di Mauro Calanchina, fotografo ticinese che aveva collaborato con la guerriglia della Urng negli anni ’80. In quell’occasione ci inventammo pure sul posto un altro doc: “Dissimo-Acul, senza ritorno”, coi figli di un emigrato italiano di inizio del secolo scorso che dalla Val Vigezzo si installò sull’altopiano maya finendo col produrre formaggio svizzero.
Poi girammo “Di ritorno dall’inferno” nella località in piena pampa argentina di Tandil, dove si erano ritirati l’ex direttore della Nestlé in Guatemala Andreas Hanggi (svizzero tedesco) e il figlio Nicolas dopo la liberazione dal carcere guatemalteco per la clamorosa quanto falsa accusa di narcotraffico.
In Guatemala tornammo ancora una volta per produrre “Il Galileo dei Maya”: uno svizzero tedesco di madre guatemalteca che a Città del Guatemala fondò l’Università Galileo Galilei.
Nostro referente ogni volta il produttore della trasmissione Storie (che all’inizio si chiamava Eldorado) Federico Jolli, decano del Festival di Locarno, che ci incaricava di un film all’anno. Ricordo che una volta, non avendo in quel momento grandi idee, raccontai a Giangi di un particolare oste di Lucignano (Arezzo) che sottoponeva obbligatoriamente nel menù ai suoi clienti piatti alle erbe di campo che lui stesso raccoglieva. Giangi mi disse: “dai, proponilo a Federico, ha un debole per queste cose; non ti dirà di no”. Vennero fuori 26 minuti su “La dittatura delle erbe”.
Diversi nostri film li abbiamo montati con la moglie di Giangi, la formidabile Marianne. Con la quale avrei poi realizzato fra Zurigo e Sansepolcro (per la trasmissione Svizzera e dintorni) “Guglielmo Tell nello spazio” sul Palio della Balestra di Sansepolcro (sempre in provincia di Arezzo).
Ma non devo a Giangi moltissimo solo sul piano professionale. Ben presto mi offrì generosamente una stanza a casa sua per risparmiarmi ogni volta di fare il pendolare con casa di mia madre in periferia di Milano. Come del resto, alcuni anni dopo, il Bergomi mi propose di andare a stare sopra l’appartamento di sua madre Giacomina a Mendrisio, dove mi sono ospitato fino alla fine della mia collaborazione con la Rsi. Così che da sempre Bruno e Federico mi hanno affibbiato l’appellativo di debat.
Nel 2007 Giangi si fratturò un piede sui Denti della Vecchia. Così che il documentario “Rosso Porpora” sul principe della chiesa cardinal Oscar Rodriguez Maradiaga (arcivescovo di Tegucigalpa-Honduras) lo realizzai con un altro grande regista: Dani Soudani.
Nel 2011 ho avuto invece l’opportunità di fare con uno storico amico, alpinista e realizzatore di Giangi, Fulvio Mariani, “Confessioni di un mercante”, girato in Guatemala su un businessman svizzero italiano, Tito Bassi, che ai tempi del conflitto con la guerriglia in Guatemala vendeva armi svizzere (e velivoli Pilatus) all’esercito locale. Una sorta di alter ego nella stessa epoca del precedentemente menzionato Mauro Calanchina. Infatti si conoscevano e fu lo stesso Mauro a suggerirmi che potevo fare anche la sua di storia.
Più volte Giangi è venuto nella “mia” Anghiari a presentare i suoi e i nostri film nella Sala Audiovisivi. E in vista dell’attribuzione della cittadinanza onoraria anghiarese a Saverio Tutino per i suoi 80 anni, passammo una notte intera nell’archivio a Comano per montare 27 minuti sulle sue presenze alla Televisione Svizzera Italiana (poi presentati nella sala del comune). Usavamo stare in moviola fino a tardi, per finire a mangiare una pizza in mensa dal “pugliese”.
Oggi ho gli stessi 70 anni di quando Giangi se ne andò. Sobrio, tenace, di poche parole; piuttosto conservatore. Lui di origine nobile; io di famiglia operaia. Non abbiamo mai litigato.
Ricordo con emozione che stavo facendo scalo all’aeroporto di Madrid di ritorno dal Nicaragua; quando ricevetti la chiamata di Marianne in cui mi diceva che ci aveva lasciati. Sono passati “solo” dieci anni. Ma, chissà perché, mi sembra un’eternità…
Alcuni altri documentari di Gianluigi Quarti disponibili online:
Nell’immagine: Gianluigi Quarti
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