Un disastro climatico dopo l’altro che non risparmia nessun continente
E neanche la Svizzera, il Ticino e i Grigioni. La retorica del "destino tragico delle valli" e l'irresponsabilità dei negazionisti climatici causeranno sempre più vittime
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E neanche la Svizzera, il Ticino e i Grigioni. La retorica del "destino tragico delle valli" e l'irresponsabilità dei negazionisti climatici causeranno sempre più vittime
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Per la prima volta nell’oceano Atlantico un uragano di categoria 5 si è formato all’inizio dell’estate e questo non è un buon segno per il resto dell’anno e il nostro prossimo futuro. È il caso di Beryl, il primo grande uragano di una stagione che arriverà fino a novembre inoltrato, passato nel giro di 48 ore da depressione tropicale a tempesta e quindi a uragano. La velocità con la quale Beryl si è trasformato in uragano di categoria 5 è un brutto segnale per la stagione degli uragani atlantici che, alimentati da temperature oceaniche sempre più in aumento, stanno diventando più pericolosi e imprevedibili. Tanto è vero che, come sottolinea Simone Fant su Materia Rinnovabile, alcuni scienziati stanno proponendo di aggiungere una ulteriore categoria – categoria 6 – per misurare l’intensità degli uragani.
“Questa attività temporalesca di inizio stagione sta battendo i record stabiliti nel 1933 e nel 2005, due delle stagioni atlantiche più intense mai registrate”, ha dichiarato Philip Klotzbach, esperto di previsioni stagionali degli uragani presso la Colorado State University.
Il 28 giugno Beryl era una depressione tropicale, con venti a 56 km/h. Il 29 giugno è diventato il primo uragano della stagione, una categoria 1. La mattina del 30 luglio è salito alla categoria 4, raggiungendo venti di 250 km/h. Quando l’1 luglio si è abbattuto su due isole degli arcipelaghi di Grenada e St. Vincent & Grenadine, distruggendo il 90% delle abitazioni e provocando la morte di 11 persone, era diventato un uragano di categoria 5. Poi, indebolito dal viaggio, è arrivato a Houston, in Texas, la quarta area metropolitana più popolosa degli Stati Uniti, lasciando 22 vittime, milioni di persone senza corrente e migliaia di litri di acqua di fogna dispersi nell’ambiente. Poi diventato depressione tropicale, Beryl ha colpito parti dell’Arkansas e della Louisiana.
A favorire l’innescarsi di fenomeni come Beryl stanno contribuendo le temperature più alte nell’oceano Atlantico, “dove si registrano a oggi più di 29°C”, spiega a Materia Rinnovabile, Enrico Scoccimarro, scienziato del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC). Gli uragani aspirano l’acqua calda dell’oceano e la usano come carburante. In un ambiente meteorologico ottimale come quello di fine giugno, l’ampia energia termica aumenta rapidamente l’intensità della tempesta. “Vediamo una tendenza all’estensione del periodo caldo nell’oceano Atlantico e quindi l’intensificarsi delle tempeste diventa più probabile in questi mesi”, aggiunge Scoccimarro.
Già a maggio, il National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), aveva previsto nel bacino atlantico un’attività degli uragani per l’85% “superiore alla norma”: in totale tra le 17 e 25 tempeste, di cui tra le 8 e le 13 potrebbero diventare uragani. Un altro studio pubblicato su Scientific Reports aveva rilevato che gli uragani atlantici dal 2001 al 2020 avevano il doppio delle probabilità di trasformarsi da una tempesta più debole in un uragano di categoria 3 o superiore entro 24 ore rispetto al periodo 1971-1990. Lo studio si aggiunge a una serie crescente di prove che dimostrano che gli uragani maggiori a rapido sviluppo stanno diventando più probabili.
Gli esperti concordano nel ruolo del riscaldamento globale di origine antropica nell’aumento delle temperature nell’Atlantico settentrionale anche se non spiega del tutto l’eccezionalità di Beryl.
“Ovviamente il cambiamento climatico agisce su tutto, e di sicuro ci mette lo zampino. Ma non spiega del tutto il brusco salto che abbiamo visto nella primavera del 2023 e che non è ancora terminato. Ci sono altre cose in ballo”, spiega al Guardian Brian McNoldy, scienziato del clima dell’Università di Miami. “L’anno scorso abbiamo avuto queste temperature oceaniche calde da record nell’Atlantico, ma abbiamo anche iniziato ad avere un El Niño più forte nel corso dell’anno, e a parità di condizioni l’azione de El Niño avrebbe dovuto ridurre l’attività degli uragani nell’Atlantico. Probabilmente l’ha fatto in una certa misura, ma grazie alle temperature oceaniche così calde, alla fine la stagione degli uragani è stata comunque superiore alla media”.
Un ruolo potrebbe averlo giocato anche la diminuzione dell’inquinamento da aerosol che, riducendo la quantità di radiazione solare che raggiunge gli strati inferiori dell’atmosfera, raffredda leggermente il pianeta.
Cosa fare, dunque? Oltre alle cause e alla definizione di nuove categorie, gli scienziati si stanno affannando per prevedere meglio quando e perché gli uragani come Beryl si intensificano rapidamente e trovare delle soluzioni per allertare e preparare meglio la popolazione a eventuali disastri.
Tempeste più probabili e più veloci a trasformarsi in uragano significano infatti maggiori pericoli e soprattutto meno tempo per le persone per prepararsi. Lo scorso ottobre, l’uragano Otis è salito di più categorie in un solo giorno prima di abbattersi su Acapulco, in Messico, come uragano di categoria 5 provocando la morte di almeno 52 persone.
Prevedere una rapida intensificazione di un uragano è tuttavia complicato, spiega Brian Tang, professore di scienze atmosferiche all’Università di Albany: “I modelli devono incorporare l’ambiente intorno alla tempesta e al suo interno. L’anatomia di un uragano è più stratificata di quanto possa sembrare da terra: l’occhio relativamente calmo della tempesta è circondato da una regione di venti violenti, temporali e piogge intense nota come eyewall. Dal centro si diramano ‘bande di pioggia’ curve di nubi e temporali con vari livelli di intensità. Oltre a cercare di prevedere la posizione e la forza di queste parti dell’uragano, i modelli devono anche rappresentare la fisica di come l’atmosfera interagisce con l’oceano”.
Negli stessi giorni in cui Beryl si abbatteva nei Caraibi e sul Texas, più di 70 milioni di americani erano in allerta per un’ondata di calore che ha causato diversi decessi. Il 7 luglio il termometro ha segnato 53,3°C nel Parco Nazionale della Valle della Morte, in California, un valore senza precedenti in questo periodo dell’anno. Temperature record anche a Las Vegas, in Nevada, dove sono stati toccati i 48,3°C. Tra le immagini più iconiche di questi giorni, il ponte stradale mobile che collega Manhattan al Bronx, a New York, innaffiato per diverse ore per sbloccarlo perché l’acciaio si era dilatato per il caldo.
In tutti i continenti, il pianeta brucia, soffoca, si inaridisce o, allo stesso tempo, è seppellito da alluvioni e inondazioni. Negli ultimi mesi, si sono scatenati eventi meteorologici estremi uno dopo l’altro, colpendo tutti i paesi, a volte contemporaneamente, tanto che ogni giorno presenta il conto dei disastri climatici a tutte le latitudini. Stati Uniti, in Europa, Italia compresa, Cina, India, Canada, Siberia, Ucraina stanno sperimentando ondate di calore, inondazioni, siccità causati dai cambiamenti climatici di origine antropica. Il Giappone ha emesso un’allerta per le ondate di calore in 26 delle 47 prefetture del paese, invitando la popolazione a rimanere in casa, a usare i condizionatori d’aria e a bere molta acqua. In Pakistan gli ospedali non sono in grado di far fronte alle centinaia di pazienti affetti da malattie legate al caldo. A Città del Capo, in Sudafrica, quasi 1.000 case sono state distrutte da venti fortissimi. Effetto diretti del riscaldamento globale causato dall’uomo, accentuati dal fenomeno El Niño.
A year of record breaking global temperatures pic.twitter.com/HhMCKKXvbJ
— Ed Hawkins (@ed_hawkins) July 8, 2024
Secondo i rilevamenti di Copernicus, il servizio di monitoraggio dei cambiamenti climatici dell’Unione Europea, il mese scorso è stato il giugno più caldo mai registrato, il 13° mese di fila a essere il più caldo registrato. Le temperature globali hanno superato la soglia di 1,5°C in tutti gli ultimi 12 mesi e i mari hanno raggiunto la temperatura più alta per 15 mesi di fila.
“Si tratta di qualcosa di più di una stranezza statistica e mette in evidenza un grande e continuo cambiamento del nostro clima”, ha commentato Carlo Buontempo, direttore del Copernicus Climate Change Service. “Anche se questa specifica serie di eventi estremi prima o poi termina, siamo destinati a vedere nuovi record infranti man mano che il clima continua a riscaldarsi. Questo è inevitabile, a meno che non smettiamo di aggiungere gas serra nell’atmosfera e negli oceani”.
L’Europa sud-orientale e la Turchia sono state le regioni europee dove le temperature sono state maggiormente al di sopra della media, mentre sono state vicine o inferiori alla media nell’Europa occidentale, in Islanda e nella Russia nordoccidentale. Al di fuori dell’Europa, le temperature più alte della media sono state registrate nel Canada orientale, negli Stati Uniti occidentali, in Messico, in Brasile, nella Siberia settentrionale, in Medio Oriente, nell’Africa settentrionale e nell’Antartide occidentale. L’effetto de La Niña ha mitigato le temperature – inferiori alla media – nel Pacifico equatoriale orientale, anche se le temperature dell’aria sull’oceano sono rimaste a un livello insolitamente alto in molte regioni.
La temperatura media della superficie del mare per giugno è stata di 20,85°C, la più alta mai registrata in questo mese. Sono stati stabiliti nuovi record di temperatura giornaliera per i mari dal marzo 2023 fino alla fine di giugno di quest’anno, quando si è verificato un leggero raffreddamento. Secondo Buontempo, si tratta di un segno del previsto passaggio a La Niña: “C’è un effetto di raffreddamento della La Niña [sulle temperature del mare] e questo è ampiamente previsto e in gran parte anticipato. Ma l’oceano nel suo complesso rimane molto caldo”. Il previsto passaggio a La Niña dovrebbe anche portare a un raffreddamento delle temperature superficiali, ma questo non significa che la questione sia risolto, ha aggiunto. “Se il nostro obiettivo è quello di rimanere al di sotto di 1,5°C, non è sufficiente sperare nella fine di El Niño”.
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