Una storia di scarpe vecchie
Con motivazioni opache Villa Heleneum finisce ai calzolai
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Con motivazioni opache Villa Heleneum finisce ai calzolai
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Ne ho sentiti molti, tra lo stralunato, l’incredulo e lo sfinito di fronte all’ultima trovata del Municipio di Lugano. Dopo aver colpevolmente pasticciato nella vicenda dell’aeroporto, e dopo aver tentato di sdoganarci di nascosto una incongrua, inutile e costosa cementificazione di Cornaredo, facendola passare per un atto dovuto in favore dello sport, eccoli a darci un nuovo saggio di sé sul fronte della promozione della cultura e dell’utilizzo oculato degli spazi pubblici.
Mi riferisco al museo delle scarpe che andrà ad occupare gli spazi rari e preziosi di Villa Heleneum, Bally essendo riuscita a ottenere di traslocarvi tacchi, dadi, datteri, tomaie e suole che da 80 anni odorosamente languivano dalle parti di Soletta. Enrico Lombardi ha spiegato bene qui le circostanze e alcune motivazioni, palesi o sommerse, dell’attribuzione a un “museo delle carabattole” (prendo in prestito da buonanima una definizione, là a sproposito e qui calzante a puntino) di questa prestigiosa collocazione; non penso che ci vorrà un algoritmo da blockchain per calcolare il numero di visitatori, mani e piedi basteranno (sarebbe forse venuta la splendente Imelda, ma…). Un minimo di cattiva coscienza devono averlo avuto persino i promotori di questa trovata: è infatti stato necessario vestire questa improponibile scelta con gli abiti passe-partout della digitalizzazione, inserendo questo in sé incomprensibile approdo lacuale di tomaie in un peraltro già esistente progetto, tra il privato e il pubblico, legato all’innovazione tecnologica nel settore del lifestyle (denominato pomposamente “Lifestyle Tech Competence Center”); per tentare di far digerire l’indigeribile, per trasformare in profumo una molesta puzza di piedi.
Ormai lo sconforto ci coglie ad ogni esternazione del nostro tinteggiato alcalde, anche ora che torna a favoleggiare del Ticino come centro di eccellenza della moda, forse pensando a un ormai appassito mazzo di rose bianche, o ad altri fiori (o balocchi, o profumi, o per l’appunto scarpe) in agguato; come se non vi sia stato un fuggifuggi generale di marchi dell’”eccellenza”, qui approdati per meri motivi fiscali e frettolosamente rimpatriati per gli stessi motivi. Lasciando qualche eccellentissimo con un palmo di naso.
Sappiamo poco o nulla di concreto sui progetti scartati, se non che uno riguardava la collocazione in villa di un’importante collezione di arte orientale (in prestito, ci si avverte, solo temporaneo: boh), con annessi centro studi e biblioteca dedicati alla storia e alla cultura dell’Estremo Oriente, e l’altro un non meglio precisato “ideatorio culturale”. La discesa in campo di cotanti pezzi da novanta, tra i quali i soliti (l’archistar, l’ex-superbanchiere, il presidentissimo, e un ventaglio di persone assai colte), in favore dell’arte orientale è in sé un buon indizio della bontà di quel progetto ma non è ancora una prova. L’”ideatorio culturale” è invece una cosa che, detta così e senza saperne nulla, puzza da lungi di ciofeca, peggio di un minestrone fatto con una scarpa vecchia; ma è un’impressione. Siamo in fiduciosa attesa di un articolato rapporto municipale che descriva accuratamente le opzioni sul tappeto e i motivi per i quali, sotto gli auspici interessati di qualche paracattedratico genio dell’e-commerce, sono stati invece eletti i digitalissimi scarpari.
Due osservazioni finali, anzi tre. La prima: l’innovazione tecnologica è cosa eccellente, giusta e buona, anche senza bisogno di raccontarci ancora la favola del Ticino come polo del lusso, e soprattutto senza ammorbarci con scarpe (anche antichissime, per carità) che potevano rimanere dov’erano, e il centro di competenza rimanere all’USI, dov’è attualmente, o in altra meno coreografica location (non si ritiene che queste dotte riflessioni abbiano bisogno della vista lago come contesto e stimolo). La seconda: la politica culturale di una città che si vuole luogo turistico, e di un turismo di qualità, non deve per forza andare a rimorchio dell’economia privata, come se non avesse vita autonoma dai generatori di profitto. Qui siamo all’improvvisazione assoluta e al vuoto pneumatico a livello di idee che aspetta solo l’arrivo di qualche idea altrui, bella o balzana che sia, per riempirsi di fumo e di chiacchiere a spese e a danno della comunità e del suo patrimonio. La terza: salvo eccezioni molto lodevoli, la politica vede da sempre la cultura come ambito del tutto inessenziale, lontano dai propri interessi e dall’attenzione dell’elettore-bestia, una specie di zona franca che diventa luogo e pretesto per lo scambio di favori, o peggio per manifestazione di servilismo e di servaggio verso il potente di turno (ricordiamoci delle opere che rifulsero in tutta la città, o quelle poi disseminate nel Parco Civico).
Quando si usa altro dalla testa per ragionare, allora servono scarpe, molte scarpe. Quelle scarpe che, alla prima occasione, spero che l’elettore applichi finalmente a qualche augusto deretano, spedendolo dove merita.
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