Un’altra intelligenza artificiale è possibile
I progressi tecnologici pongono serie domande. Ma c’è stato un momento, negli anni 70, in cui alcuni informatici hanno sognato macchine capaci di sviluppare la nostra intelligenza «naturale»
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I progressi tecnologici pongono serie domande. Ma c’è stato un momento, negli anni 70, in cui alcuni informatici hanno sognato macchine capaci di sviluppare la nostra intelligenza «naturale»
Uno spettro si aggira per l’America – lo spettro del comunismo. Questa volta, è digitale. «Può funzionare un comunismo gestito dall’intelligenza artificiale?», si chiede Daron Acemoğlu, economista presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit), mentre il venture capitalist Marc Andreessen si preoccupa della prossima creazione di un’intelligenza artificiale (Ia) comunista da parte della Cina (1). Anche l’agitatore repubblicano Vivek Ramaswamy espone la propria analisi, affermando su X che l’Ia filocomunista costituisce una minaccia paragonabile a quella del Covid-19.
Ma chi, nel panico generale, conosce realmente la questione in oggetto? Esiste davvero un’intelligenza artificiale comunista sul modello cinese, con piattaforme improntate su quelle delle grandi società statunitensi e sottoposte a uno stretto controllo statale? Oppure un’intelligenza artificiale in linea con lo Stato sociale all’europea, dallo sviluppo centralizzato nelle mani delle istituzioni pubbliche?
La seconda opzione presenta aspetti interessanti, tanto più che, oggi, la corsa all’Ia tende a prediligere la rapidità a scapito della qualità – come riscontrato a maggio scorso quando la funzione AI Overviews di Google ha suggerito agli utenti di mettere la colla sulla pizza e di mangiare sassi. Il finanziamento pubblico dell’Ia generativa, affiancato da una rigorosa selezione dei dati e da un’inflessibile supervisione, potrebbe potenziare la qualità degli strumenti e alzare il prezzo per le società fruitrici, garantendo così un miglior compenso ai creatori dei contenuti.
Tuttavia, lo sviluppo dell’economia socializzata dell’intelligenza artificiale, non determinerebbe un’ulteriore capitolazione dinnanzi alla Silicon Valley? Un’Ia «comunista» o «socialista» deve limitarsi a decidere chi detenga e controlli i dati oppure modificare i modelli e le infrastrutture informatiche? Non potrebbe, forse, promuovere trasformazioni più profonde?
Una risposta positiva ci è offerta da due esempi della storia contemporanea. Il primo prende il nome di CyberSyn, l’iniziativa visionaria del presidente cileno Salvador Allende. Questo progetto tanto ambizioso quanto effimero (1970-1973), condotto da un carismatico consulente britannico, Stafford Beer, si proponeva di inventare un modo più efficace di gestire l’economia, sfruttando le modeste risorse informatiche del paese.
CyberSyn, spesso definito «Internet socialista», si serviva della rete cilena di macchine telex per far confluire l’insieme dei dati di produzione delle società nazionalizzate vero un computer centrale a Santiago. Tuttavia, nell’intento di evitare le insidie della centralizzazione sovietica, introduceva una forma di apprendimento automatico all’avanguardia volto a garantire maggior potere ai lavoratori.
I tecnici del governo si recavano nelle fabbriche e lavoravano in stretto contatto con gli operai per schematizzare i processi produttivi e di gestione applicati sul campo. Queste preziose informazioni, non disponibili per i dirigenti di una società capitalistica, venivano successivamente tradotte in modelli operativi e, quindi, monitorate con l’aiuto di software specifici di statistica. Inoltre, gli operai-manager potevano essere allertati in tempo reale sui problemi che si presentavano.
Il fulcro di CyberSyn era la visione di un sistema ibrido in cui la potenza di calcolo amplificasse l’intelligenza umana. Trasformando le conoscenze implicite in competenze esplicite e fruibili, i lavoratori – la classe recentemente giunta al comando del paese – avrebbero potuto agire con sicurezza e consapevolezza, a prescindere dalla loro precedente esperienza nei settori della gestione e dell’economia. È forse questa l’Ia socialista su cui ci stiamo interrogando? Per approfondire ulteriormente il significato di questo particolare concetto, è necessario soffermarci sulle avventure di Warren Brodey, psichiatra dedicatosi alla cibernetica prima di diventare hippy, oggi centenario
Alla fine degli anni 1960, grazie agli stanziamenti di un ricco socio, Brodey crea a Boston un laboratorio sperimentale, Environmental Ecology Lab (Eel). A distanza di alcune stazioni della metropolitana, i suoi amici Marvin Minsky e Seymour Papert, del Mit – istituzione a cui un tempo aveva aderito –, sviluppano progetti di Ia che, secondo lui, seguono la strada sbagliata. Minsky e Papert partono dal presupposto che il ragionamento umano sia guidato da un insieme di regole e di processi algoritmici astratti e basti individuarli, quindi decifrarli, per fornire a un computer un’«intelligenza artificiale».
Discostandosi da questo approccio, Brodey e i suoi cinque collaboratori ritengono che l’intelligenza, affatto circoscritta al nostro cervello, nasca dalle interazioni con l’ambiente circostante. È un’intelligenza ecologica. Di per sé, regole e meccanismi astratti non hanno alcun significato, poiché a determinare quest’ultimo è il contesto. Per illustrare questa teoria, esponevano un semplice esempio: l’invito a spogliarsi assume diversi significati a seconda che sia pronunciato da un medico, dall’essere amato o da uno sconosciuto incontrato in un vicolo scuro.
La scommessa stava nel concepire un’Ia in grado di cogliere in maniera autonoma queste sottili sfumature. Oltre a modellizzare i processi cognitivi umani, si punta a chiedere ai computer di padroneggiare un’infinita varietà di concetti, di comportamenti e di situazioni, ma anche le loro correlazioni – in altri termini, di capire nella sua interezza il contesto culturale della civiltà umana, unico capace di dare un senso al tutto.
Invece di investire le proprie energie in questa missione apparentemente impossibile, la squadra di Brodey sogna di mettere computer e tecnologie cibernetiche al servizio degli esseri umani per permettergli di esplorare, ma anche di arricchire, il proprio ambiente, e soprattutto la propria persona. In quest’ottica, le tecnologie dell’informazione non sono semplici mezzi per eseguire ordini, bensì strumenti per pensare il mondo e interagire con esso. Si immagini, per esempio, una doccia cibernetica reattiva che conversa con noi sul cambiamento climatico e sulla scarsità di risorse idriche, o ancora un’automobile che, mentre guidiamo, ci invita a riflettere sullo stato dei trasporti pubblici. Il laboratorio inventa una tuta che, se indossata per ballare, cambia la musica in tempo reale, mettendo in risalto le complesse relazioni tra suono e movimento.
L’Environmental Ecology Lab prende apertamente le distanze dalla scuola di Francoforte e dalla sua critica della ragione strumentale: è il capitalismo industriale, non la tecnologia, a privare il nostro mondo della sua dimensione ecologica e ad obbligarci sulla via della razionalità mezzi-fini denunciata da Theodor Adorno, Max Horkheimer e Herbert Marcuse. Per ristabilire questa dimensione smarrita, si pone l’obiettivo di farci prendere coscienza, con l’aiuto di sensori e computer, delle complessità nascoste dietro gli aspetti dell’esistenza che ci sembrano più banali.
Le idee eccentriche di Brodey hanno lasciato un’impronta profonda ma, paradossalmente, quasi invisibile nella nostra cultura digitale. Durante la sua breve carriera al Mit, Brodey ha preso sotto la sua ala un tal Nicholas Negroponte, tecno-utopista all’avanguardia, i cui lavori all’interno del Mit Media Lab hanno notevolmente influenzato i termini della discussione attorno alla rivoluzione digitale. Eppure, le rispettive filosofie dei due uomini erano diametralmente opposte.
Brodey pensava che gli apparecchi cibernetici di nuova generazione dovessero distinguersi innanzi tutto per la loro «reattività», in modo da facilitare il dialogo uomo-macchina e da affinare la nostra coscienza ecologica. Affermava che gli individui aspirano sinceramente all’evoluzione e vedeva nel computer un alleato in questa impresa di trasformazione permanente. Il suo protetto Negroponte ha riadattato il concetto per renderlo più duttile: la principale funzione delle macchine era, dunque, capire, prevedere e soddisfare i nostri bisogni immediati.
Insomma, laddove Negroponte cercava di creare macchine originali ed eccentriche, Brodey, convinto che gli ambienti intelligenti – e l’intelligenza stessa – non potessero esistere senza le persone, cercava di creare esseri umani originali ed eccentrici. La Silicon Valley ha adottato il punto di vista di Negroponte.
Un’altra caratteristica distingueva Brodey dai suoi colleghi: mentre gli informatici dell’epoca vedevano nell’Ia uno strumento di human augmentation – in termini di potenziamento, con macchine che eseguivano i compiti più semplici per incrementare la produttività –, lui puntava sullo human enhancement – un concetto che andava ben oltre la semplice efficienza.
La distinzione tra questi due paradigmi è tanto sottile, quanto cruciale. Pensiamo all’augmentation quando si utilizza il Gps del telefonino per orientarsi in luoghi sconosciuti: in questo modo si arriva prima e con maggiore facilità a destinazione. Tuttavia, il beneficio è effimero. In mancanza di questo aiutino tecnologico, ci troveremmo ancor più impotenti. L’enhancement consiste nel servirsi della tecnologia per sviluppare nuove competenze – nel caso in questione, il perfezionamento di un innato senso dell’orientamento, attraverso tecniche avanzate di memorizzazione, oppure imparando a interpretare i segnali offerti dalla natura.
In sostanza, l’augmentation ci sottrae capacità in nome dell’efficienza, mentre l’enhancement ci permette di acquisirne di nuove e arricchisce le nostre interazioni con il mondo. Da questa fondamentale differenza dipende il modo in cui incorporiamo la tecnologia nelle nostre vite per trasformarci in soggetti passivi o in artigiani creativi.
Brodey aveva maturato queste convinzioni all’epoca della sua partecipazione, in qualità di psichiatra, a un programma più o meno segreto elaborato dalla Central Intelligence Agency (Cia), all’inizio degli anni 1960. L’agenzia statunitense aveva avuto la brillante idea di insegnare il russo a una squadra di non vedenti attentamente selezionati, per fargli ascoltare le comunicazioni sovietiche intercettate. L’ipotesi era che, data la loro cecità, gli altri sensi fossero più sviluppati rispetto a quelli di analisti dotati della vista. Dopo diversi anni di collaborazione con queste persone, nell’intenzione di individuare segnali interni ed esterni – temperatura corporea, tasso di umidità ambientale, qualità della luce… – sollecitati per migliorare le loro percezioni, Brodey aveva scoperto che la loro capacità di perfezionare i sensi era universalmente condivisa.
Sebbene questo programma di miglioramento, che ci offriva potenzialmente una sensibilità artistica, fosse decisamente poetico, Brodey, da incorreggibile pragmatico, riteneva fosse impossibile da mettere in pratica senza il ricorso ai computer. Quando tentò di importarlo al Mit con la speranza di trasformarlo in un campo di ricerca ufficiale, si scontrò con una ferma opposizione, e non solo dalle fila dell’élite conservatrice dell’Ia. Altri vi scorsero tetre connotazioni naziste: Brodey non stava forse suggerendo di realizzare esperimenti sugli esseri umani? Questa levata di scudi lo costrinse a rivolgersi a finanziatori privati.
La sostanziale differenza tra augmentation ed enhancement – e le sue conseguenze in termini di automatizzazione – è diventata evidente solo alcuni decenni dopo. La prima punta a creare macchine che pensano, sentono come noi, rischiando di rendere caduche le nostre competenze. Gli attuali strumenti fondati sull’Ia generativa si propongono di aumentare il lavoro di artisti e autori ma minacciano anche di sostituirli, in maniera pura e semplice. Al contrario, le tecnologie intelligenti di Brodey non intendevano automatizzare l’umanità fino a renderla obsoleta né a standardizzare l’esistenza, bensì promettevano di arricchire i nostri interessi e di estendere le nostre facoltà, ossia di elevare l’esperienza umana invece di limitarla.
Un punto di vista coraggioso nel contesto dell’epoca, quando la maggior parte dei rappresentanti della controcultura pensava la tecnologia come forza anonima e senz’anima di cui era meglio diffidare o, nelle comunità favorevoli al «ritorno alla terra», come strumento di emancipazione esclusivamente individuale. Quando, a metà degli anni 1960, Brodey elaborava queste idee, la sua vita professionale e familiare subì pesanti conseguenze. Le sue prese di posizione lo spingevano sempre più verso le frange avanguardiste dell’establishment statunitense. Come molti all’interno del movimento hippy, non riconosceva la legittimità della politica, motivo che gli impediva di tradurre le teorie in rivendicazioni.
All’altro capo del mondo, un filosofo sovietico, Evald Ilyenkov, come lui nato nel 1924, si poneva domande molto simili, pur all’interno di un quadro concettuale proprio del «marxismo creativo». I suoi lavori permettono di capire meglio come si colloca il potenziamento umano nel pensiero comunista e socialista.
Come Brodey, Ilyenkov aveva lavorato a lungo con persone non vedenti. Dai suoi studi, concludeva che le capacità cognitive e sensoriali sono frutto della socializzazione e dell’interazione con la tecnologia. Laddove troviamo un buon ambiente pedagogico e tecnologico, possiamo coltivare le competenze latenti. Il comunismo si poneva l’obiettivo di liberare, sotto l’egida dello Stato, le capacità umane latenti affinché ognuno potesse realizzare pienamente il proprio potenziale, indipendentemente dalle barriere sociali o naturali.
Ilyenkov, esasperato dal fascino dei burocrati sovietici per l’Ia di stampo statunitense, elaborò una critica particolarmente convincente in un articolo del 1968 intitolato «Idoli e ideali» (6). Secondo lui, l’elaborazione di un’intelligenza artificiale equivaleva alla costruzione di un’enorme e distruttiva fabbrica di sabbia artificiale nel bel mezzo del Sahara. Anche qualora funzionasse alla perfezione, sarebbe stato assurdo non ricorrere a una risorsa naturale disponibile in quantità, appena al di là delle sue mura.
Quasi sessant’anni dopo, la denuncia di Ilyenkov ha conservato tutta la sua attualità. Continuiamo a essere bloccati nel deserto a difendere la legittimità di quella fabbrica, senza accorgerci che nessuno, tranne gli stati maggiori e gli architetti dell’ordine economico, ne ha realmente bisogno. Brodey utilizzava un altra immagine, suggeritagli da Marshall McLuhan: le sue tecnologie ecologiche avevano il potere di illuminarci, come un pesce che improvvisamente prende coscienza dell’esistenza dell’acqua. Allo stesso modo, era ormai necessario informare gli ossessionati dall’Ia che erano circondati da un colossale giacimento di intelligenza, umana, creativa, imprevedibile e poetica.
Rimane da sciogliere la grande domanda: possiamo realmente migliorarci se continuiamo a ricorrere a concetti quali l’Ia, che sembra contraddire l’idea stessa di sviluppo umano?
L’ambizione di costruire un’intelligenza artificiale ha captato miliardi di dollari e, per alcuni, il suo costo si ripercuote sul piano personale. L’intransigenza dei suoi promotori che ne hanno assicurato l’espansione – grazie alle raccolte di fondi in ogni direzione e a una rigida definizione dei confini della disciplina – ha portato all’emarginazione dei pensatori visionari come Stafford Beer e Warren Brodey, che si è sempre sentito a disagio di fronte al marchio di «intelligenza artificiale».
I due uomini, che sono riusciti a incontrarsi poco prima della morte del primo, nel 2002, provenivano da ambienti diametralmente opposti. Beer, ex dirigente di impresa, era membro dell’ultra élitario Club Athenaeum britannique; Brodey era cresciuto a Toronto in una famiglia ebrea della classe media. Questo non impedì loro di nutrire lo stesso disprezzo verso l’Ia come disciplina scientifica e verso il dogmatismo dei suoi specialisti. Condividevano, inoltre, lo stesso padre spirituale: Warren McCulloch, celebre mente della cibernetica.
La cibernetica era nata subito dopo la seconda guerra mondiale, sotto il patrocinio del matematico Norbert Wiener. Molti ricercatori, pionieri nei rispettivi campi (matematica, neurofisiologia, ingegneria, biologia, antropologia…), avevano evidenziato una difficoltà comune: tutti si scontravano con processi complessi e non lineari in cui diventava impossibile distinguere tra cause ed effetti – poiché l’apparente effetto di un dato processo naturale e sociale poteva rivelarsi al contempo legato a un altro.
La cibernetica, articolata attorno a questa idea di mutua causalità e di interconnessione tra fenomeni apparentemente indipendenti, più che una disciplina scientifica appare una filosofia. I suoi grandi pensatori non abbandonavano il loro campo di ricerca iniziale, ma arricchivano le proprie analisi grazie a una prospettiva nuova. L’approccio interdisciplinare permetteva di comprendere i processi in atto nelle macchine, nei cervelli umani e nelle società per mezzo di un unico insieme di concetti.
Quando ha fatto la sua comparsa a metà degli anni 1950, l’intelligenza artificiale si è presentata come propaggine della cibernetica; in realtà, aveva più i tratti di una regressione. La cibernetica si ispirava alle macchine per capire meglio l’intelligenza umana, non per riprodurla. La disciplina emergente dell’Ia, disinibita, iniziava ad aprire una nuova strada, fabbricando macchine capaci di «pensare» come noi. L’obiettivo non era svelare i misteri della cognizione umana, ma soddisfare le esigenze del suo principale cliente: l’esercito. La ricerca era apertamente mossa dagli imperativi di difesa, elemento determinante per la sua futura evoluzione.
Così, alcuni dei progetti iniziali ispirati alla filosofia cibernetica, come il tentativo di fabbricare reti neurali artificiali, si sono rapidamente reindirizzati verso scopi militari. Queste reti non sarebbero più servite a districare gli intrecci del pensiero ma ad analizzare le immagini aeree per localizzare navi nemiche o petroliere. L’ambiziosa ricerca di un’intelligenza artificiale ha finito per rivestire di un’aura scientifica banali contratti militari.
In questo contesto, l’interdisciplinarità non è una priorità. L’Ia era dominata da giovani e brillanti matematici o informatici che ritenevano la cibernetica troppo astratta, troppo filosofica e soprattutto potenzialmente sovversiva. Va detto che, nel frattempo, Norbert Wiener aveva iniziato a sostenere le lotte sindacali e a criticare l’esercito, allontanando così la probabilità di ottenere finanziamenti dal Pentagono.
L’intelligenza artificiale che permetteva di «potenziare» gli operatori umani e di elaborare armi autonome, non aveva certo problemi di questo tipo. È stata fin dalle origini una disciplina scientifica a sé. Mentre le scienze tradizionali cercavano di capire il mondo, aiutandosi a tratti con la modellizzazione, i pionieri dell’Ia avevano deciso di costruire modelli semplificati di un fenomeno del mondo reale – l’intelligenza –, per poi convincerci che nulla distingueva i primi dal secondo. Un po’ come se alcuni geografi rinnegati creassero una nuova disciplina, il «territorio artificiale», allo scopo di convincerci che, con i progressi della tecnologia, cartina e territorio diventano una sola e unica cosa.
Sotto diversi punti di vista, la traiettoria – e la tragedia – dell’Ia durante la guerra fredda assomiglia a quella delle scienze economiche, in particolare statunitensi. L’economia negli Stati uniti aveva sprigionato un pensiero effervescente, plurale, in sintonia con le dinamiche del mondo, reale, consapevole dell’influenza del potere e delle istituzioni (dai sindacati alla Federal reserve) su produzione e crescita. Le priorità della guerra fredda l’hanno trasformata in una disciplina ossessionata dai modelli astratti – ottimizzazione, equilibrio, teoria dei giochi… – la cui pertinenza nella vita reale aveva un’importanza secondaria. Anche se oggi alcune applicazioni digitali, come la pubblicità online o i servizi di noleggio con conducente (Ncc), si basano su queste costruzioni matematiche, la validità specifica di un approccio parziale non basta a dargli nuova legittimità. Il punto è che l’economia ortodossa moderna non ha molto da proporre per risolvere problemi come le disuguaglianze o il cambiamento climatico, se non soluzioni incentrate sul mercato.
Questa analisi si applica anche all’intelligenza artificiale che, seppur descritta come un trionfo tecnologico, appare spesso come un eufemismo applicato a militarismo e capitalismo. Per quanto i suoi difensori riconoscano la necessità di adottare controllo e regolamentazione minimi, faticano a immaginare un futuro in cui la nostra concezione di intelligenza non sia dominata dall’Ia. Fin dall’inizio, quest’ultima è stata considerata, più che una scienza – caratterizzata da obiettivi finali non predeterminati –, un ibrido tra religione e ingegneria. Il suo proposito finale era la creazione di un sistema informatico universale in grado di eseguire ogni tipo di compito senza un esplicito addestramento – decisione cui attribuiamo solitamente il nome di intelligenza artificiale generale (Agi).
Ritroviamo, così, un nuovo parallelismo con l’economia: durante la guerra fredda, l’Iag è stata concepita negli stessi termini in cui gli economisti interpretavano il libero mercato, ossia come una forza autonoma, autoregolamentata, a cui l’umanità si sarebbe dovuta adattare. Da un lato, il pensiero economico dissimula il ruolo della violenza coloniale, del patriarcato e del razzismo nell’espansione del capitalismo, come in una naturale estensione della propensione umana «a fare scambi, traffici e baratti (7)», descritta dalla celebre formula di Adam Smith. Dall’altro, la tradizionale narrazione sulle origini dell’Ia riconosce i contributi della cibernetica, della matematica, della logica, ma non fa alcun cenno al contesto storico o geopolitico. Un po’ come se definissimo l’eugenetica e la frenologia quali semplici branche della genetica e della biologia senza menzionare la loro dimensione razzista. Non dimentichiamo, sottolinea Yarden Katz nel suo eccellente saggio Artificial Whiteness (8), che l’intelligenza artificiale non sarebbe mai esistita senza il militarismo, il corporativismo e il patriottismo esacerbato dalla guerra fredda.
Un principio così distorto potrà un giorno essere posto al servizio di ambizioni progressiste? Non è forse inutile invocare un’«intelligenza artificiale comunista» così come sognare laboratori clandestini dal volto umano o fantastici strumenti di tortura?
Le esperienze di Stafford Beer e Warren Brodey suggeriscono che faremmo bene a rinunciare allo spettro dell’intelligenza artificiale socialista per concentrarci sulla definizione di una politica tecnologica socialista post-Ia. Invece di tentare di umanizzare i prodotti esistenti, ipotizzando applicazioni di sinistra o inventando nuovi modelli di proprietà economica, dobbiamo rendere accessibili a tutti, senza differenza di classe, di etnia o di genere, le istituzioni, le infrastrutture e le tecnologie che favoriscono l’autonomia creatrice e permettono di realizzare appieno le sue capacità. In altri termini, dobbiamo innescare la transizione da human augmentation a human enhancement.
Una politica di questo tipo potrebbe fondarsi sulle componenti dello Stato sociale ben lontane dalle parole d’ordine conservatrici del capitalismo: educazione e cultura, biblioteche, università ed emittenti pubbliche. Aprirebbe così la strada a una politica educativa e culturale socialista, invece di rafforzare l’economia neoliberista, come fa l’approccio attuale.
Brodey aveva capito molto presto che non poteva esistere una IA socialista senza socialismo. Fin dall’inizio degli anni 1970, riconosceva che il contesto della guerra fredda negli Stati uniti privava totalmente di significato le sue ricerche su «human enhacement» e «tecnologia economica» – oltre al suo aperto e fiero rifiuto del denaro del Pentagono, ma anche di istituzioni come il Mit, per evidenziare la propria opposizione alla guerra del Vietnam.
Stando alle affermazioni di Negroponte, Brodey non volle mai sentir parlare di una cattedra al Mit. Non era interessato alle comodità. Preferì andare a costruirsi una casa a base di schiuma e sfere di plexiglass nel cuore di una foresta del New Hampshire. Un ambiente «reattivo e intelligente» a lui confacente. Ma questo era troppo, anche per i suoi estimatori. «Non tutti aspirano a vivere in una palla», ironizzava Negroponte al tempo.
Il pensiero di Brodey era permeato di utopismo. Lui e il suo più caro collega, Avery Johnson, nutrivano la speranza che l’industria statunitense scegliesse di far propria la loro visione – prodotti reattivi e interattivi capaci di far nascere nuovi gusti e centri di interesse negli utenti, piuttosto che cullarsi nel desiderio consumistico. Ma le aziende hanno optato per la versione più conservatrice di Negroponte, in cui l’interattività permette in primo luogo alle macchine di individuare le nostre angosce e indurci a comprare di più.
Nel 1973, Brodey, disilluso, si trasferì in Norvegia. Qui, rinacque maoista, membro attivo del Partito comunista dei lavoratori, tanto da recarsi in Cina per confrontarsi con alcuni ingegneri sul suo concetto di «tecnologie reattive». Un cambio di rotta affatto banale per un uomo che aveva avuto un ruolo attivo in progetti dell’esercito, della National Aeronautics and Space Administration (Nasa) e della Cia, durante la guerra fredda.
Come ho potuto cogliere nelle lunghe conversazioni avute con lui negli ultimi dieci anni in Norvegia, dove vive ancora oggi, Brodey continua a rappresentare perfettamente il progetto di evoluzione aperta che aveva promosso negli anni 1960. Senza dubbio, per lui, lo human enhancement ha funzionato. Questo significa che potrebbe funzionare per tutti – a condizione di scegliere le tecnologie adeguate e coltivare una buona dose di scetticismo riguardo all’intelligenza artificiale, comunista o meno.
Il vero problema è la “borghesia mafiosa” che le circonda, permettendone la sopravvivenza e ottenendo cospicui profitti
Tra i suoi film più noti ‘Pastorale’, premiato al Festival di Berlino. Costretto a lasciare la Georgia, arrivò in Francia nel 1982. È morto all’età di 89 anni