Di Francesca Caferri, La Repubblica
Fino al 6 ottobre la storia di Yair Golan ricalcava quella di molti dei protagonisti della vita politica di Israele. Una carriera nell’Idf, dove era arrivato a ricoprire l’incarico di Vice capo di Stato maggiore, finita a causa di un discorso giudicato troppo politico che lo sommerse di polemiche. Poi lo sbarco in Parlamento con Meretz, il partito con posizioni più progressiste rispetto a quelle del compassato Labour. Rimasto fuori dalla Knesset, Golan sembrava avviato a una carriera di commentatore. Poi venne il 7 ottobre: il generale, con la sua auto – per la cronaca, una Toyota Yaris bianca un po’ scassata – arrivò fino a Reim. Lì, da solo, salvò diversi dei ragazzi, guadagnandosi il rispetto anche di chi per anni gli era stato nemico. Lunga premessa, necessaria per spiegare perché l’uomo che siede di fronte a noi nel suo quartiere generale di Tel Aviv sia riuscito con facilità a vincere le primarie del Labour qualche settimana fa e a guidare il partito verso la fusione con Meretz, dando vita a un soggetto politico nuovo – i Democratici – che si presenta come l’erede della sinistra dei Padri fondatori di Israele.
Generale, la sinistra è quasi scomparsa dal Parlamento: oggi ha 4 seggi. Da dove si riparte?
«Siamo già ripartiti: l’unificazione fra il Labour e Meretz è il primo obiettivo raggiunto. Secondo sarà convincere gli israeliani che il vero problema non è né Hamas né Hezbollah né l’Iran, ma il governo Netanyahu: Israele non può sopravvivere come lo Stato messianico in cui lo stanno trasformando. Dobbiamo essere parte del mondo occidentale, essere una democrazia liberale».
C’è una parte del mondo occidentale che non capisce più Israele: come pensa di recuperare questa distanza?
«Cominciando da un accordo per riportare a casa gli ostaggi. Il prima possibile: ciò porterà al cessate al fuoco a Sud e alla fine della guerra a Nord. Da lì i nostri sforzi andranno verso nuove elezioni e quindi a costruire un governo democratico, che rispetti la legge e abbia una visione chiara di dove andiamo e di quali sono le questioni che dobbiamo affrontare: la prima è decidere del destino nostro e dei palestinesi».
Lei quali prenderebbe?
«Ci sono solo due strade: l’annessione o la separazione. Io credo che l’annessione di fatto che sta avvenendo in Cisgiordania vada fermata subito. La comunità internazionale non capisce quello che Netanyahu e i suoi partner stanno facendo lì: questo è parte della perdita di credibilità».
Quindi i due Stati sono a suo avviso ancora una realtà possibile?
«Credo ancora che la visione dei due Stati sia la più promettente, ma credo anche che la strada sia molto più difficile ora di quanto non lo fosse prima del 7 ottobre. Israele è sotto shock: non si può ignorare questo né la necessità di ristabilire un senso di sicurezza per la sua gente. Per riaprire la strada verso i due Stati dobbiamo passare da una separazione civile in cui il controllo della sicurezza sia in mano a Israele. Dare all’Anp la responsabilità sulla sicurezza troppo presto è ciò che ci ha portato al disastro: dopo Oslo e dopo il ritiro da Gaza. In cambio abbiamo avuto terribili ondate di terrore».
A Gaza ci sono più di 40mila vittime: sono tutte responsabili delle ondate di terrore?
«Molte delle persone uccise il 7 ottobre in Israele appartenevano a quello che qui chiamiamo “il campo della pace”. Gente che per una vita ha sostenuto il dialogo. Cosa hanno avuto in cambio? Questo non si può dimenticare. Come non si può dimenticare che Hamas ha fortificato Gaza incurante di essere in un’area densamente popolata. Il nostro esercito combatte in un terreno urbano che ha pochi precedenti nella Storia militare».
Il 20% dei cittadini di Israele ha origini palestinesi: che posto hanno nel futuro di questo Paese?
«Credo sia imperativo che nella prossima coalizione ci sia almeno un partito arabo. Le loro istanze vanno ascoltate: e accolte. Penso ad esempio a Mansour Abbas, che riconosce Israele e chiede, al suo interno, uguali diritti per la minoranza araba».
Nell’immagine: Yair Golan