Yascha Mounk e Olivier Roy “I diritti di cui abbiamo bisogno”
Due tra i più importanti politologi si confrontano sulle sfide di un Occidente in crisi di identità. Che deve riscoprire la lotta contro le diseguaglianze
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Due tra i più importanti politologi si confrontano sulle sfide di un Occidente in crisi di identità. Che deve riscoprire la lotta contro le diseguaglianze
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Due tra i più importanti politologi si confrontano sulle sfide di un Occidente in crisi di identità. Che deve riscoprire la lotta contro le diseguaglianze
Sono importanti i diritti identitari: di genere, di etnia, di religione, per proteggere ogni minoranza. Ma sono molto importanti anche i diritti sociali, collettivi, universali: il diritto a un lavoro, a una casa, all’assistenza sanitaria e all’istruzione scolastica, a un’esistenza dignitosa per tutti. E negli ultimi decenni la sinistra li ha trascurati: se i progressisti non tornano a offrire una cultura politica sul terreno sociale, rischiano di non vincere più un’elezione, lasciando che sia la destra ad atteggiarsi a difensore dei più deboli. È il messaggio di allarme lanciato da due illustri politologi occidentali, l’americano Yascha Mounk e il francese Olivier Roy, in due libri pubblicati contemporaneamente in Italia in questi giorni da Feltrinelli, rispettivamente La trappola identitaria e L’appiattimento del mondo. Un monito su cui entrambi ritornano in questo dialogo a cui li ha invitati Repubblica, per riflettere sulle sfide del nostro tempo.
Partiamo da una notizia recente: come giudicate la vittoria dell’Adf (Alternative fur Deutschland) nel voto in Turingia, prima volta che un partito di estrema destra si afferma in un’elezione regionale in Germania dal nazismo a oggi?
MOUNK: «Mentre da tempo assistiamo all’ascesa della destra populista in tutta Europa, la Germania sembrava in grado di avere limitato il fenomeno: ora non è più l’eccezione. Con l’aggravante che Adf è un partito più estremista di Giorgia Meloni in Italia o di Marine Le Pen in Francia. Raccoglie consensi in tutta la Germania, ma particolarmente in Germania Est: la prova che il processo di riunificazione ha funzionato dal punto di vista economico, ma non è riuscito a creare una cultura condivisa fra le due Germanie».
ROY: «Il problema, non soltanto tedesco, è la perdita della memoria storica. In Germania, le nuove generazioni ignorano chi fosse Hitler o se ne disinteressano. Come se il passato non avesse più importanza: vale anche in Italia, nei confronti di Mussolini e del fascismo. I tedeschi dell’est, dopo il nazismo e il comunismo, si sono visti offrire dai tedeschi dell’ovest il consumismo: una cultura senza valori. Per questo sentono il fascino dell’estrema destra, che propone la cultura della rabbia».
La destra fa paura in Germania, è al governo in Italia e ha sfiorato l’impresa in Francia: colpa della sinistra europea?
M: «Parzialmente sì. E il fenomeno non si limita all’Europa: il populista Modi è al potere in India, il populista Trump potrebbe tornarci in America. La sinistra può dare la colpa a chi vota per la destra, oppure guardarsi allo specchio è chiedersi se è colpa sua. Se è perché non riesce a spiegare alla gente i benefici dell’immigrazione. Se è per la distanza tra le élite e la massa…».
R: «Per me la chiave è il neoliberismo: l’accettazione, da parte della sinistra, di politiche come la deindustrializzazione che hanno lasciato indifesa la classe operaia. I perdenti si sentono abbandonati dalla sinistra. E allora votano per la destra che, almeno a parole, promette di difenderli».
Nel 2016 la candidata democratica Hillary Clinton perse le presidenziali anche perché se la prese con quello che definì “paniere dei deplorevoli”: razzisti, omofobi, misogini. Ma perché non si può dire che un razzista omofobo è un individuo deplorevole?
M: «Si può dirlo, nelle nostre società c’è il diritto di parola. Ma è un atteggiamento sbagliato per due ragioni. La prima è che, se vuoi riconquistare i voti di quelle persone, non aiuta offenderli. E la seconda è che non è del tutto vero. Non sono tutti terribili, anche se votano per partiti terribili. Ultimamente ho viaggiato a lungo in Italia. In Toscana ho incontrato tante persone per bene, che una volta votavano per il partito comunista e adesso votano per Giorgia Meloni. Ma sono le stesse persone».
R: «Comunque l’etichetta di deplorevoli non vale per tutti. I gilet gialli in Francia: quei dimostranti non erano razzisti, omofobi, misogini. Si battevano per questioni economiche».
Da qualche parte in Europa la sinistra ha vinto: nel Regno Unito, dove Keir Starmer ha riportato il Labour al governo abbandonando il radicalismo del suo predecessore Jeremy Corbyn.
M: «La linea giusta per allargare il consenso, ma bisogna anche dire che i conservatori, erano in calo di popolarità da tempo, pagando il caos della Brexit e la deriva radical-populista del proprio partito, che ha alienato il sostegno dei moderati. Corbyn aveva fallito per mancanza di patriottismo, elemento importante per la maggioranza degli inglesi, e perché proponeva un modello di sinistra statalista anni ’70 che i più oggi rifiutano».
R: «Era difficile per il Labour non vincere, dopo 14 anni di catastrofe conservatrice. Ma, per stravincere, Starmer non aveva altra scelta che conquistare il centro dell’elettorato».
Cosa c’è che non va nella difesa a oltranza dei diritti identitari, Yascha?
M: «Non c’è niente che non va: è giusto difendere i diritti delle minoranze. Ma Martin Luther King lottava per l’inclusione degli afroamericani nella società Usa, mentre oggi alcuni gruppi identitari sembrano chiusi su sé stessi, impegnati a escludere gli altri più che a essere inclusi. E non prestare attenzione ai diritti universali, per concentrarsi su quelli identitari, è un errore che la sinistra occidentale rischia di pagare caro».
In che senso il mondo si è “appiattito”, professor Roy?
R: «Nel senso che non c’è più nulla sopra e sotto: i valori sono scomparsi, rimangono in piedi solo gli egoismi personali. Non c’è più senso storico, come se avessimo fatto tabula rasa. Il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, è diventato per l’Europa l’anno zero: abbiamo perso traccia di tutto quello che c’è stato prima e l’abbiamo sostituito con il nulla dal punto di vista culturale. Viviamo in un mondo appiattito dal denaro e dai consumi, nel quale la gente è rimasta senza niente di cui essere orgogliosa».
E se fosse semplicemente tutta colpa dell’Asia? Grazie alla globalizzazione, questo sarà il secolo asiatico, in cui il declino della classe media occidentale è inevitabile. Sicché l’occidentale medio è arrabbiato e vota per i populisti…
M: «Una tesi che non mi convince. È vero che il miracolo economico del dopoguerra, dall’America all’Italia, fu qualcosa di unico e probabilmente irripetibile. Ma gli Stati Uniti continuano a essere la prima potenza economica mondiale, i loro salari crescono, eppure la gente ha paura ed è scontenta. Torniamo a quello che diceva Roy: l’incapacità degli odierni partiti di massa di suggerire una politica e una cultura condivisa. Patriottica, senza chiudere la porta agli immigrati. Determinata a proteggere le minoranze, senza diventarne schiava. Pronta a condannare i misfatti del passato, come il colonialismo, senza pretendere di riscrivere la storia».
R: «L’Occidente è in crisi di valori, in crisi demografica, in crisi economica. Eppure, la cultura occidentale continua a dominare il mondo, nel cinema, nelle arti, nella musica, nei nuovi media. Se ritrova una identità culturale, l’Occidente non mi pare condannato a un ruolo secondario nella competizione con l’Asia».
L’Occidente è diventato prigioniero del woke, del politicamente corretto?
M: «Sì. Ne è diventato schiavo. Io credo che il diritto di parola debba essere più ampio, il che non significa diritto di dire cose offensive. In Italia, per esempio, mi sembra che oggi quasi tutti parlino di gay e lesbiche in modo diverso rispetto a dieci anni fa, e questo è un grande progresso. Il problema nasce quando il politicamente corretto ci impedisce di affrontare problemi reali. Quando impedisce una libera discussione. Quando una minuscola parte della popolazione adotta una posizione e prova a imporla a tutti».
R: «Come dice la parola stessa, il politicamente corretto è la correzione di vecchi pregiudizi, per cui è una tendenza positiva. Ma come sempre, quando c’è una svolta culturale, possono esserci degli eccessi».
Possiamo concludere che i diritti identitari sono importanti, ma che la sinistra deve tornare a difendere con vigore anche i diritti sociali, il diritto a un lavoro, a una casa, a sanità e istruzione?
M: «È la ragione per cui oggi, molti che votavano a sinistra, votano a destra: non si sentono più protetti sul terreno sociale. Ma si possono difendere entrambi i diritti allo stesso tempo: proteggere l’inclusione delle minoranze e la tolleranza a ogni livello, battendosi contemporaneamente per la protezione sociale di tutta la collettività. Anche perché la destra offre protezione a parole, ma raramente migliora la vita dei cittadini nella sostanza».
R: «Una volta i diritti sociali erano al centro della mobilitazione progressista: erano il cuore dell’ideale di sinistra, sia pure nelle sue diverse declinazioni, socialdemocratica, socialista, comunista. Oggi la sinistra ha poco da dire su questo terreno. E così, anche quando governa, ha poco da offrire, poco per differenziarsi dalla destra».
I libri
La trappola identitaria di Yascha Mounk (Feltrinelli, traduzione di Francesca Pe’, pagg. 384, euro 30)
L’appiattimento del mondo di Olivier Roy (Feltrinelli, traduzione di Massimiliano Guareschi, pagg. 208, euro 22)
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Lente di ingrandimento su fatti preoccupanti che non provocano la necessaria preoccupazione