Javier Cercas: “Questi populisti svuoteranno la libertà”
Lo scrittore spagnolo: «Le nuove destre sono minacciose, ma le forze europeiste reggono. Il loro errore è non smontare la retorica nazionalista, il progetto dell’Ue va condiviso»
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Lo scrittore spagnolo: «Le nuove destre sono minacciose, ma le forze europeiste reggono. Il loro errore è non smontare la retorica nazionalista, il progetto dell’Ue va condiviso»
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• – Franco Cavani
In una campagna elettorale giocata molto, e spesso anche in modo scomposto, in chiave interna più che europea, Schlein ha avuto il merito di puntare sui temi delle disuguaglianze, della giustizia sociale, dei diritti, dal salario alla sanità all’immigrazione
• – Redazione
All’europarlamento vi sono ancora i numeri favorevoli all’integrazione nell’UE, ma c’è da sperare che venga colta la lezione dopo l’allarmante avanzata dei sovranisti; grandi sconfitti Macron-Scholz; il presidente francese scioglie l’Assemblea dopo il trionfo della le Pen, subito elezioni anticipate
• – Aldo Sofia
Per una rivincita il capo dell'Eliseo punta sulle elezioni anticipate, sperando che il fronte repubblicano del "tutti contro Marine" torni a funzionare; ma il rischio è che si vada a una coabitazione che aprirebbe il palazzo all'estrema destra
• – Aldo Sofia
C’è da sperare che i cittadini, dopo il segnale d’allarme, riprendano in mano la loro storia
• – Redazione
L’iniziativa per premi meno onerosi, lanciata dal Partito socialista, è stata bocciata dal 56% dei votanti svizzeri. In Ticino ha avuto successo, approvata dal 57,5% dei cittadini. Per un freno ai costi è stata respinta dal 68,8 % dei votanti.
• – Fabio Dozio
Considerazioni sulle tre votazioni a livello cantonale: sulla riforma tributaria approvata, l’UDC parte subito all’attacco; e il centro-sinistra deve riflettere su come trovare alleanze in Gran Consiglio
• – Rocco Bianchi
Gli studi interrotti, l’ingresso nel partito, il fidanzamento con la nipote di Le Pen e la carriera velocissima
• – Redazione
Il 10 giugno di cento anni fa, il leader socialista fu massacrato dai fascisti. Ma, prima ancora, il suo omicidio iniziò a consumarsi nella calunnia e nell’isolamento che spensero una voce libera. Lo scrittore racconta il delitto anche in un podcast
• – Redazione
Lo scrittore spagnolo: «Le nuove destre sono minacciose, ma le forze europeiste reggono. Il loro errore è non smontare la retorica nazionalista, il progetto dell’Ue va condiviso»
Preoccupato ma senza panico. Lo scrittore spagnolo Javier Cercas, reduce dal successo dell’ultimo volume della Trilogia Terra Alta, Il Castello di Barbablù, edito in Italia da Guanda, sta ultimando il suo nuovo romanzo e pensa all’Europa in cui circolerà. Un’Europa più nera, più rabbiosa, più ostile per un europeista convinto come lui, eppure non ancora perduta. «Poteva andare peggio» dice a La Stampa ragionando del presente, l’anatomia di questo istante.
In Francia trionfa Le Pen, in Germania Afd è il secondo partito, l’Italia conferma Meloni a pieno titolo, in Spagna Vox raddoppia i seggi. Si aspettava questa avanzata dell’estrema destra?
«Forse no. Eppure c’è qualcosa di positivo da leggere in questo voto. Penso alla Scandinava, dove l’onda nera dilagata dopo il 2008 ha perso molti consensi, alla Svezia, alla Finlandia, al Portogallo, gli estremi geografici dell’Europa hanno retto. È vero che in Francia, in Germania e in Italia l’estrema destra è cresciuta, ma poteva crescere di più. E poi, a conti fatti, la coalizione di popolari, socialdemocratici, liberali e verdi che ha tenuto a battesimo l’Europa è ancora lì: sia pur con minori poteri continuerà a governare e lo farà mentre neppure l’estrema destra vuole più distruggere l’Unione. Da questo punto di vista la Brexit è stata un vaccino, mostrandosi in tutta la sua catastroficità».
I verdi, dice. Sono lì ma hanno pagato con un forte ridimensionamento la transizione ecologica che tutti auspicano ma nessuno vuol pagare.
«Uno degli errori più gravi di noi europeisti è non dire la verità sulle cose complesse. Il green deal serve ma non è a costo zero, va pagato. Chi lo paga? Bisogna trovare un equilibrio, ragionare, argomentare. Per tutta la campagna elettorale si è parlato di Spagna, Italia, Francia, mai di Europa, come fosse un’elezione locale. A tutt’oggi le persone credono che l’Ue non sia rilevante per le loro vite, la considerano un progetto elitario, conoscono il nome di tutti i presidenti regionali ma non quello di Von der Leyen. Noi europeisti dovremmo contrastare i cliché disfattisti ogni giorno, non solo a ridosso delle urne: l’Europa è burocratica e Madrid invece no? Dovremmo sciogliere le paure spiegando che un’Europa unita e federale non distruggerà lo stato nazione o la lingua italiana come sbandiera Marine Le Pen, ma è la condizione sine qua non per preservare la pace e la prosperità economica. Dovremmo contrastare con pazienza lo schema mentale nazionalista in cui abita la maggior parte delle persone».
La scarsa popolarità dell’Ue è dunque un problema più narrativo che strutturale?
«È anche un problema di narrativa. Quel che ci unisce è molto più importante di quel che ci divide, eppure gli antieuropeisti hanno gioco facile a cavalcare le paure perché ripetono un discorso nazionalista consolidato da due secoli, il romanticismo del sangue, il popolo, l’identità. È molto più difficile difendere l’europeismo perché tira in ballo una realtà mai sperimentata finora, un gruppo di Paesi con idiomi e storie diverse che si è fatto guerra per mille anni e poi ha scelto la pace. Gli europeisti hanno l’onere di smascherare le menzogne più pericolose, quelle composte da piccole verità. I migranti per esempio, possono essere tante cose ma non un problema economico dal momento che gli imprenditori li chiedono. Oppure la retorica di Marine Le Pen su Bruxelles che vorrebbe ridurre la Francia a una provincia europea. È falso. L’Europa può sopravvivere senza il Regno Unito ma non senza la Francia che ne è il centro storico, politico e militare. Le Pen sfrutta le paure vere di chi teme di essere tagliato fuori dalla Storia per dire il falso».
La preoccupa più Marine Le Pen di Giorgia Meloni?
«Sebbene ami la Francia mi preoccupa tantissimo. Le Pen è più radicale di Meloni, magari la premier italiana condivide le idee della leader del Rassemblement National ma per ora sembra più furba, ha proposte meno estreme. E poi la Francia non è l’Italia, è un Paese cruciale per l’Europa ed è anche quello più refrattario all’Unione, più spaventato dall’idea di perdere la propria sovranità, un Paese dove la provincia fa sentire forte la sua voce».
Quanto a lungo peserà ancora in Europa l’antagonismo culturale tra provincia e città, periferia e centro, popolo ed establishment?
«La Francia da questo punto di vista è un buon esempio, un Paese che prima della rivoluzione francese era diviso come l’Italia o la Spagna e che poi ha annullato le sue differenze nel trionfo della nazione, l’essere tutti francesi. Solo che la Francia da sola non può più contrastare le grandi potenze, a cominciare dalla Cina. Non può farlo la Francia e non può farlo nessun Paese europeo ma può farlo l’Ue che nel suo insieme è un già colosso economico. I nazionalisti parlano alla pancia dei popoli vendendo la balla del potere salvifico della patria. Dobbiamo smantellare lo schema secondo cui a una cultura corrisponde una nazione: si può appartenere a culture diverse, parlare lingue diverse, praticare religioni diverse e vivere nella stessa casa comune europea: è una rivoluzione ma è necessaria, siamo a un bivio».
E i giovani? Cosa votano, cosa non votano, perché?
«I giovani sono arrabbiati, ovunque. In Spagna per esempio hanno votato per “Se acabó la fiesta”, un partito alla destra di Vox che ha eletto tre deputati. Ma non è una scelta di destra è un grido protesta e, come sempre, la protesta è più vocale alle europee quando si pensa che la scheda non conti, che l’impatto sia minore. Non sono i giovani il problema, tocca a noi spiegare».
C’è la pressione di fattori esterni sulla crisi dell’Unione europea? La Russia di Putin, l’America potenzialmente trumpiana, la Cina.
«L’Europa se unita è una potenza: prima del 2008, Rifkin scriveva che il nuovo millennio sarebbe stato il secolo europeo. L’America non ci crede e la cosa non è nei suoi interessi, non lo vuole neppure la Cina e men che mai la Russia, che lavora ogni giorno ad alimentare la discordia pagando le forze più autodistruttive dell’Ue. Ma non nascondiamoci, la colpa è nostra che abbiamo paura, che parcellizziamo i problemi anziché condividerli, i migranti all’Italia, la minaccia russa alla Polonia. Non capiamo che siamo sulla stessa barca, che il progetto europeo deve essere condiviso, popolare».
E se invece del modello europeo fosse quello della democrazia liberale ad essere in crisi, dove, con grande soddisfazione di dittatori e autocrati vari, vota ormai appena un elettore su due?
«Vero, il modello democratico è in discussione perché, a differenza della dittatura, la democrazia è sempre in questione, è perfettibile, richiede lavoro quotidiano affinché nessuna conquista sia data per scontata. Dopo il 2008 è cominciata la reazione antidemocratica globale, come nel ’29. La Storia si ripete con maschere diverse e oggi abbiamo il nazionalpopulismo che è diverso dal fascismo perché non si scaglia violentemente contro la democrazia ma più perversamente la vuole smantellare sventolandone il vessillo, come l’indipendentismo catalano che ha ingannato tutti spacciandosi per democratico. Come le destre europee che non vogliono più uscire dall’Ue ma svuotarla da dentro. Serve spiegare, oggi più che mai».
Nell’immagine: Javier Cercas a Chiassoletteraria
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