Forse anche Dio ha qualche problema

Forse anche Dio ha qualche problema

C'è chi tempo fa ha profetizzato la "fine della storia". Ma la storia purtroppo è ancora tutta qui, ed è quella di sempre


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Forse anche Dio ha qualche problema

Santificare un golpista? In un paese civile, in una democrazia autentica e non solo formale, in una modernità razionale e illuministica, certamente non sarebbe successo. E invece è successo, in questi ultimi giorni, per Donald Trump, dopo l’attentato che ha subito. Perché le retoriche dominanti hanno rimosso il fatto che Trump sia stato (e sia ancora) un golpista, un anti-democratico radicale, un sovranista e un razzista e non solo nella propaganda – sostanzialmente un fascista, con dietro di sé però, secondo i sondaggi, il 52% degli americani che evidentemente ne condividono l’ideologia. 

Certo, ora l’attenzione si sposta su Biden, che rinuncia alle elezioni presidenziali e lancia un endorsement per la sua vice Kamala Harris. Ma in attesa di capire se sarà veramente Harris a sfidare Trump – se sì, probabilmente sarà una elezione epocale, una donna contro un machista (a prescindere dalle politiche che realizzeranno) – restiamo su quest’ultimo e sugli Stati Uniti che hanno santificato, appunto, un golpista.

In realtà, gli Stati Uniti non sono – non lo sono mai stati davvero, se non nella guerra al nazifascismo e nei movimenti giovanili anti-guerra in Vietnam o per i diritti civili – un paese razionale, illuministico, liberale (basterebbe ricordare gli assassini dei due Kennedy e di Martin Luther King). Soprattutto non sono mai stati un paese davvero democratico, anche se vuole fare credere di esserlo, di essere anzi la migliore democrazia del mondo, un modello e un faro per l’intera umanità (e in nome della esportazione della democrazia ha fatto i peggiori disastri della sua e nostra storia recente, dalla ex Jugoslavia all’Iraq, passando per la Libia e oggi sostenendo militarmente il genocidio – o come altrimenti vogliamo chiamarlo – e il colonialismo israeliano in Palestina, appena sanzionato dalla Corte Internazionale di Giustizia come contrario al diritto internazionale, senza dimenticare il sostegno americano al golpe del fascista Pinochet nel Cile del 1973). Piuttosto – non diciamo nulla di nuovo, ma può essere utile ricordarlo – è un paese governato dalle oligarchie del denaro e dell’industria, dal complesso militare-industriale (lo aveva già capito il Presidente Eisenhower, nel 1961), oggi dalla Silicon Valley, con il contorno dei fondamentalismi religiosi di un’America dove anche la fede è diventata una industria per consumatori di merci religiose. Un paese imperialista – come negarlo, con più di 800 basi militari sparse nel mondo e la volontà, ora, di creare di fatto una NATO globale – non certo per difendere la democrazia, semmai per difendere i suoi interessi e quelli del suo modello economico, producendo per questo sempre nuovi nemici contro cui combattere.

Ora Trump viene appunto santificato prima e incoronato poi a candidato alle prossime elezioni presidenziali da un partito repubblicano ormai indecorosamente appiattito sul fascismo/trumpismo, Trump ultimo oligarca della lunga storia oligarchica americana. “Avevo Dio dalla mia parte” ha detto Trump, raccontando di come è sopravvissuto ai colpi che lo hanno ferito a un orecchio. E se fosse vero – insomma se Dio esistesse davvero – dovremmo pensare che anche Dio ha qualche problema se appoggia e difende Trump, così dimostrando di non sapere più distinguere, neppure lui, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Scherziamo, ovviamente, l’omicidio è sempre da condannare, noi felici che l’uomo Trump sia ancora vivo; ma lo diciamo per  ricordare che chiamare in causa Dio è prassi antica del potere (del peggiore potere), e Dio è sempre tirato per la giacchetta quando serve anche, come ora, alla propria santificazione: come appunto per Trump – e se il 52% degli americani si riconosce in Trump vuol dire che Dio funziona sempre egregiamente per la macchina della propaganda.

Nel suo discorso alla Convention repubblicana ha anche detto di voler essere una figura unificante – lui che ha fatto della violenza verbale e fisica dividente la sua ideologia – e di candidarsi “per essere il presidente di tutta l’America, non di mezza America”, aggiungendo che l’America deve essere “salvata da un governo fallito e incompetente”, perché “sotto l’amministrazione Biden l’America è diventata una nazione in declino”. Dimenticando che il declino dura da molto più tempo e che si aggrava sempre di più quanto più cresce l’arroganza del potere americano e la sua incapacità (per egocentrismo e narcisismo identitario e per volontà messianica di onnipotenza in quanto vero e unico popolo eletto) di capire che il mondo è cambiato. Dall’unilateralità e dall’archia americana sta transitando verso un policentrismo articolato, anche se non certo positivo e virtuoso in quanto anch’esso archico (la poli-archia, e non certo un governo democratico del mondo). E il candidato repubblicano si propone come colui che può far tornare grande l’America quando invece è solo l’espressione dell’ultima tappa di questo declino. 

“Metterò fine all’immigrazione illegale chiudendo il nostro confine e finendo il muro” con il Messico, ha continuato Trump, aggiungendo poi di voler attivare “la più grande deportazione della nostra storia”. E ha inoltre promesso che già dal primo giorno della sua presidenza estenderà le trivellazioni petrolifere e la diffusione delle energie fossili in generale, al che i suoi supporter alla Convention repubblicana, dicono le cronache, hanno iniziato a gridare “trivella, trivella, trivella!”. Già, perché l’oligarca Trump è ovviamente al servizio della oligarchia economica e finanziaria anche del fossile, per la quale, come si dice, è più facile immaginare la fine del mondo – e nostra – che la fine del capitalismo. Ovvero, Trump è un mix micidiale (per la democrazia e per la biosfera) di sovranismo, negazionismo climatico, neoliberismo, razzismo, anarco-capitalismo, egotismo/solipsismo da popolo eletto, teocrazia, oligarchia e non democrazia (neppure formale), arroganza e protervia, bellicismo sempre e comunque – insomma (chiamiamo le cose con il loro nome) di fascismo o di quello che Umberto Eco aveva definito fascismo eterno o Ur-fascismo. 

Se a questo aggiungiamo che gran parte della Silicon Valley ha fatto endorsement (Musk su tutti) per Trump, Musk spingendo per avere JD Vance (forse peggiore di Trump) come candidato Vicepresidente – endorsement da parte cioè di un’America iper-tecnologica, appunto anarco-capitalista, post-umanista, futurista e che vuole mutare i destini del mondo imponendoci (in nome di una innovazione che non si deve fermare mai, in realtà soprattutto per accrescere sempre di più i propri profitti), di dover diventare digitali e di accettare l’intelligenza artificiale come un dato di fatto a prescindere da noi (dal demos) e dalla demo-crazia  allora dovremmo finalmente ammettere o meglio ricordare, avendolo dimenticato da tempo, che l’innovazione tecnologica e capitalistica è, dall’avvio della rivoluzione industriale, anti-democratica in sé e per sé, oligarchica in sé e per sé – e quindi è del tutto normale (per il capitalismo e per il sistema tecnico, non certo per noi e per la biosfera) che oggi l’oligarchia della Silicon Valley si allei con l’oligarca Trump. Chiamato anche tycoon, termine che un tempo, in America, accanto a quelli di robber barons e moguls – come ricordavano due grandi economisti del passato non troppo lontano come Paul A. Baran e Paul M. Sweezy nel loro Il capitale monopolistico (Einaudi, 1968) – “riflettevano il sentimento popolare che paragonava il grande uomo d’affari americano al signore feudale per le sue abitudini rapaci e la sua mancanza di preoccupazioni per il benessere pubblico”, esattamente come oggi nel capitalismo digitale. Con la differenza che oggi robber barons, moguls e tycoons (Trump, Musk e la Silicon Valley, ma anche Bolloré, Blocher e ieri Marchionne, eccetera eccetera) hanno il consenso affascinato dei media, delle Università e soprattutto di masse di popolo (digitale e non digitale) incapaci, per propria essenza, di preoccuparsi del bene pubblico e della biosfera. E il recentissimo bug che ha bloccato aerei, banche, canali televisivi e ospedali dimostra che viviamo in un mondo in cui tutto è collegato ma che soprattutto dipende da pochi privati (appunto l’oligarchia tecnologica e il suo oligopolio) che governano il mondo.

Se questa è l’America trumpiana/muskiana che ci aspetta, dovremmo forse abbandonarla al suo declino per salvarci, evitando cioè di farci alleati della sua arroganza – il declino può essere molto arrogante, l’arroganza della volontà di potenza che si oppone al proprio declino. Sapendo tuttavia che se Trump è un oligarca temporaneo, quella di Musk e della Silicon Valley è una oligarchia (e ricordiamo che l’olig-archia, fin dall’antica Grecia, è sempre contro la demo-crazia; e quindi la democrazia, se vuole essere demo-crazia, deve essere sempre anti-oligarchica) che sembra ormai consolidata e accettata da tutti, sinistre comprese. È il fascismo tecnologico. Molto più pericoloso del fascismo politico – che comunque è sempre stato e sempre è al servizio del capitale e oggi del tecno-capitalismo.

Dovremmo quindi forse – come Europa – lasciare l’America al suo destino, partecipando invece alla costruzione di un mondo diverso e soprattutto migliore. Il problema è che anche noi europei siamo americani. 

Nell’immagine: un’opera dell’artista californiano Andrew Kong Knight

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