Una gioventù ammutolita

Una gioventù ammutolita

L’esperienza quotidiana, fra i banchi di scuola, di una convivenza difficile e piena di domande con ragazzi che “stanno male”


Andrea Moser
Andrea Moser
Una gioventù ammutolita

Come stanno veramente le ragazze e i ragazzi di oggi? Per chi in qualità di insegnante vive quotidianamente a stretto contatto con i giovani studenti dovrebbe essere una domanda non troppo difficile, eppure la risposta non è semplice, anche se un punto di partenza appare piuttosto chiaro: i giovani stanno male! Basterebbe in questo senso leggere i recentissimi studi sul disagio giovanile pubblicati da poco dalla Confederazione per farsi un’idea che le cose non vanno bene. Si potrebbe anche semplificare il problema dicendo che questa stagione della vita è sempre stata problematica, rappresenta un passaggio, e come tutti i grandi cambiamenti interiori porta con sé paure, insicurezze, manifestazioni di aggressività e tutto il resto.

Mi pare però che si stiano manifestando alcuni fenomeni del tutto nuovi. Innanzitutto i ragazzi non parlano, sono silenti e ammutoliti davanti a qualsiasi domanda o stimolo. Personalmente lo riscontro tutti i giorni: nelle aule regna spesso l’afasia, un imbarazzante mutismo. Fosse il segno di una protesta rispetto a un sistema scolastico che appare sempre più stressante ed esigente (“per me, prof., la scuola è un incubo!”), o la reazione alla sensazione che la scuola non intercetti più alcun interesse, che sia qualcosa che vada “superato al più presto” e che quindi la “vera vita” inizierà dopo, avremmo almeno qualche indizio su cui imbastire delle riflessioni, per ripensare, almeno idealmente, la scuola del futuro.

Certo, tutto ciò esiste e richiede delle risposte: si tratta di una sfida enorme di cui forse non siamo del tutto consapevoli. Non credo tuttavia che il problema si celi solo in quest’analisi. Sta accadendo qualcosa di più terribile, e che tocca tre fattori assolutamente inediti, o quanto meno mai riscontrati con tale intensità nella storia recente: prima di tutto i ragazzi non parlano perché terrorizzati dal giudizio; e, ben inteso, non dal giudizio dell’insegnante (cosa che sarebbe in parte del tutto comprensibile), ma da quello dei compagni.

Tutto quindi ruota attorno al modo in cui sono etichettati dai coetanei: essi trovano la propria identità nello sguardo degli altri; ciò, inevitabilmente, conduce alla perdita della fiducia in sé stessi, rallenta la formazione della propria personalità: “Se sbaglio, gli altri diranno che sono stupida! o che non so esprimermi, o che sono diventata rossa in viso”. L’immagine è l’unica cosa che conta: “Chissà se il mio look va bene; lo so che non sono abbastanza bella e abbastanza ricca!”. È ovvio che una delle cause va ricercata nei social (primo fra tutti Instagram) e nella cultura dell’apparenza; la conseguenza è l’insorgere della nevrosi: la scissione fra ciò che sono e ciò che vorrei essere. Da qui gli attacchi di panico, ansie, problemi di sonno, mal di pancia, mal di testa. Sempre più spesso gli studenti mi dicono che si assenteranno da lezione per recarsi dallo psicologo; ciò che colpisce è che lo dicono quasi con orgoglio, sottintendendo che la colpa è anche di noi adulti.

Il secondo fattore nuovo è l’incapacità di dare voce alle proprie emozioni: spesso mancano loro le parole per dire ciò che sentono e che vorrebbero dire: in un modo o nell’altro il disagio prima o poi non può che manifestarsi in modo dirompente. La loro vita si basa sulle immagini dei telefonini che li immergono compulsivamente in giochini dai colori psichedelici, a visionare brevi filmati su TikTok o a seguire il trash di Sanremo (chissà che prima o poi non si abbia il coraggio di vietare l’uso dei cellulari a scuola; sarebbe un segnale culturale importantissimo e ne beneficerebbero tutti, insegnanti compresi!).

Se tutto ciò che li circonda rappresenta l’opposto dei valori che cerca faticosamente di portare avanti la scuola, quale impatto può avere la lettura dell’Infinito di Leopardi, la tristezza di Francesca, o il Canzoniere del Petrarca? E in fondo, diciamocelo chiaramente: come dare loro torto? Ecco, quando la poesia lascerà i banchi di scuola, sostanzialmente per sfinimento, o perché chi la insegnerà non crederà più fino in fondo al suo valore, significherà la fine definitiva di una certa idea di scuola.

Anche in questo caso sono proprio i lapsus degli studenti a indicarci la loro Weltanschauung. Del Petrarca l’aspetto che sembra averli colpiti maggiormente è il suo desiderio di testimoniare una “vita esemplare”, che, però, nei loro lavori scritti è diventata l’ossessione per una “vita perfetta” e che “tanto Petrarca mente sempre!”.

Che dire poi della tendenza a considerare l’arte (l’unico strumento per dare voce ai nostri sentimenti) come qualcosa di sostanzialmente inutile, di poco spendibile? Ciò che conta sono le competenze, gli obiettivi, tutte cose misurabili, perfette come i numeri binari dei computer.

Il terzo fattore è altrettanto angosciante e tocca una dimensione più ampia: tralasciando i danni prodotti dalla pandemia, e su cui si è scritto molto, senza forse considerare a sufficienza come un’intera generazione si ritrovi con quasi due anni di scolarizzazione a singhiozzo e quindi con “buchi” nella propria formazione (da ciò l’ulteriore incremento degli insuccessi scolastici; basti pensare che quasi quattro allievi su dieci del settore medio superiore non supera il primo anno), non si può non considerare che l’Europa è attraversata da una guerra che non si vedeva da 80 anni. L’impressione è che ci sia una sorta di rimozione di questa inquietante realtà. Nessuno – al di là dei mass media – sembra volerne parlare, quasi l’ottimismo fosse l’unica religione a cui credere e, soprattutto, ogni pensiero cupo va rigorosamente evitato, e, soprattutto, mai esternato. Cosa provano i giovani quando leggono delle minacce dell’uso della bomba atomica? Sono preoccupati? Io credo di sì (come tutti quanti d’altronde), ma sono meno sicuro che gli adulti abbiano il coraggio e gli strumenti per ascoltare i propri figli e i propri studenti.

Qualche giorno fa mentre abbassavo le tapparelle della mia aula per schermare i raggi del sole una ragazza di 17 anni mi dice: “No, prof., così sembra un bunker!”. Le sue parole mi sono ronzate in testa per giorni, accompagnate a un vago senso di colpa per non aver detto nulla e, forse, per aver mancato al mio ruolo educativo.

Andrea Moser è insegnante  e poeta

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