Emergenza Israele: tracollo o opportunità?
Attacchi israeliani e ritorsioni palestinesi, mentre si profila una nuova Intifada: una pericolosa miccia, ma paradossalmente anche una nuova prospettiva
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Attacchi israeliani e ritorsioni palestinesi, mentre si profila una nuova Intifada: una pericolosa miccia, ma paradossalmente anche una nuova prospettiva
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Attacchi israeliani e ritorsioni palestinesi, mentre si profila una nuova Intifada: una pericolosa miccia, ma paradossalmente anche una nuova prospettiva
« Il sesto governo Netanyahu sarà forse il tanto atteso trauma che farà crollare l’unica ‘democrazia occupante’ del mondo?”. In un articolo apparso questa settimana sul quotidiano Haaretz, Avraham Burg, ex presidente del parlamento, fa così riferimento con cinica ironia alla drammatica crisi che investe Israele da quando, a fine dicembre, Benyamin Netanyahu si è nuovamente insediato al potere grazie ad una coalizione con partiti ultraortodossi e della destra nazionalista religiosa. Da allora il paese è nel caos e la situazione non sembra che peggiorare di giorno in giorno.
A fianco del premier spiccano il ministro della sicurezza interna Itamar Ben-Gvir, noto per le sue simpatie per l’estremismo sionista religioso, e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, orgogliosamente autodefinitosi “omofobo, razzista e fascista”. I due non hanno tardato a far pervenire esplicite affermazioni della sovranità assoluta di Israele sul territorio mirando, tra le altre cose, ad un tentativo di annessione de facto della Cisgiordania. Le sempre più frequenti provocazioni verbali si accompagnano ad una drammatica escalation di violenza nei territori occupati, attuata attraverso un crudele inasprimento delle misure adottate dall’esercito israeliano nei confronti della popolazione palestinese che sta pagando con un numero di vittime senza precedenti. Nel ping-pong di rappresaglie si sono naturalmente moltiplicati anche gli attentati contro i civili israeliani, ultimo quello di ieri sera in una via centrale di Tel Aviv.
Se non bastassero le operazioni messe in atto dall’esercito, la sera del 26 febbraio scorso i coloni ebrei, sostenuti e legittimati dall’alto, hanno vendicato da soli le proprie vittime incendiando il villaggio palestinese di Hawara. Con quest’ultimo, che è stato definito dai media un vero e proprio pogrom, si è forse raggiunto l’apice del clima di nazionalismo etnico, religioso e culturale che si respira dall’inizio di gennaio. Il già fragile contratto sociale israeliano ha preso fuoco insieme alle case di quei poveretti e l’etica ebraica si è ridotta in cenere.
Ad inasprire ulteriormente la situazione ha contribuito l’ostinazione del governo Netanyahu ad approvare in prima istanza la tanto contestata riforma giudiziaria che, oltre a modificare la procedura di nomina dei giudici, esautora la Corte Suprema consentendo al Parlamento di annullarne le decisioni con estrema facilità. Essendo Israele privo di una Costituzione, la Corte è di fatto l’unico organo a tutela dei diritti individuali. Forse per la prima volta in settant’anni, gli israeliani temono si stia delineando una vera e propria dittatura con ovvie ripercussioni, per altro già percepibili sull’economia, la sicurezza dei cittadini e le relazioni internazionali.
In risposta alla condotta del nuovo governo, che sembra irrimediabilmente intenzionato a minare alle fondamenta le loro istituzioni democratiche, centinaia di migliaia di israeliani scendono in strada già da dieci settimane, mettendo in atto una delle proteste più significative della storia dello stato ebraico per costanza, irruenza e dimensioni. Tra le fila dei manifestanti che sventolano giganti bandiere con la stella di Davide invocando il ripristino della democrazia, molti ebrei laici e benestanti, professionisti dell’hi tech, piloti e riservisti. Non a tutti gli avversari di Netanyahu, tuttavia, riesce facile identificarsi con la narrativa dominante degli organizzatori, la cui agenda, almeno nelle prime settimane, non sembra aver avuto abbastanza a cuore la fine dell’occupazione e la questione palestinese. Fare riferimento a Israele come se fino a due mesi fa fosse stata un’impeccabile democrazia non riscuote certo le simpatie dei palestinesi israeliani, per lo più assenti dalle proteste, né degli attivisti più radicali. Anche gli ebrei osservanti dalle idee progressiste, tra i quali si distinguono non pochi intellettuali dalle vedute originali e creative, si sentono guardati con superiorità e ingiustamente assimilati agli estremisti religiosi al governo.
Il pessimismo è dominante, benché un barlume di speranza si intravveda nei primi sintomi di ribellione tra i riservisti e i membri delle forze dell’ordine che più di tutti hanno il potere di “disarmare” Netanyahu e i suoi alleati.
Così, mentre Netanyahu e la moglie portano scompiglio a Roma, che ha offerto loro anche una protesta di “benvenuto”, a Tel Aviv quello che doveva essere un week end di feste e divertimenti, in corrispondenza del carnevale ebraico di Purim, si è aperto all’insegna del caos tra manifestazioni e sirene di ambulanze e polizia che impazzano in seguito alla sparatoria avvenuta in una delle vie più centrali della città. Questa settimana sembra fossero già stati sventati diversi attentati e l’approssimarsi del Ramadan rende l’allerta ancora più elevata. Nel suo discorso alla nazione di giovedì sera il presidente Izkhak Herzog, verosimilmente teso, ha richiamato con fermezza coalizione e opposizione ad invertire urgentemente la rotta, concordando una riforma che tuteli la democrazia e l’interesse dei cittadini di Israele nel mosaico delle loro molteplici identità.
Quella che oggi sembra quasi assumere i contorni di una faida tra tribù ebraiche, potrebbe trasformarsi in una preziosa occasione per gli israeliani di schierarsi senza ambiguità a fianco dei palestinesi ponendo fine all’occupazione. L’alternativa potrebbe essere il baratro o il banale restauro della supremazia ebraica laica con la sua “democrazia coloniale”, come la chiama Burg, fino alla prossima crisi.
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