La depressione israeliana e l’urgenza di reintrodurre la dimensione politica nell’anima

La depressione israeliana e l’urgenza di reintrodurre la dimensione politica nell’anima

Una riflessione sullo stato della salute mentale in Israele dopo che anche Shirel Golan, una delle sopravvissute al massacro del Nova Festival il 7 ottobre 2023, si è tolta la vita nel giorno del suo ventiduesimo compleanno


Sarah Parenzo
Sarah Parenzo
La depressione israeliana e l’urgenza di...

Dalla nostra corrispondente da Tel Aviv

In occasione del primo anniversario delle stragi di Hamas, nelle ultime settimane le principali piattaforme israeliane hanno cominciato a distribuire documentari e serie televisive che ricostruiscono e riproducono nei minimi dettagli i drammatici eventi del 7 ottobre 2023. Se dal punto di vista politico quella di “rianimare” il trauma è un’operazione che potrebbe garantire al governo il protrarsi del consenso dell’opinione pubblica alle devastanti operazioni militari ancora in corso, dal punto di vista della salute mentale degli israeliani si tratta invece dell’ennesimo suicidio collettivo, dal quale sarà sempre più difficile rialzarsi indenni.

Che le conseguenze avrebbero messo a dura prova il già precario servizio pubblico di salute mentale era evidente sin dai giorni immediatamente successivi alle aggressioni, che avevano visto la generosa mobilitazione gratuita degli operatori giunti da tutto il paese in soccorso dei superstiti dei massacri, degli sfollati e delle famiglie di vittime e ostaggi. L’orrore che ha colpito Israele quel famigerato sabato mattina è senza dubbio il più spaventoso dalla fondazione dello Stato ebraico e l’impatto psicologico sulla società di proporzioni inestimabili. Seppure ancora ampiamente sotto organico, dunque, nel corso dei mesi il sistema ha reagito con la consueta efficienza israeliana, che coniuga tecnologia e innovazione.

Con l’insorgere della crisi i servizi di salute mentale si sono prontamente attivati per supportare la popolazione e prevenire, per quando possibile, l’insorgere di disturbo post traumatico da stress (ptsd), linee di pronto soccorso emotivo sono state messe a disposizione in diverse lingue, le casse sanitarie offrono agli assicurati fino a tre ore di terapia gratuita, mentre il personale specializzato è stato potenziato e continuamente inviato a seguire corsi di formazione e aggiornamento sul trauma per prestare l’aiuto necessario. Infine, proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia che il Parlamento israeliano è in procinto di approvare una legge che garantirà ai servizi pubblici di salute mentale un ingente finanziamento che dovrebbe migliorare notevolmente la qualità e il tempo di accesso alle strutture già nel breve periodo.

Eppure basta vivere a contatto con la società per capire che si tratta di palliativi. La percezione di vulnerabilità, l’esposizione diretta o secondaria a massacri e bombardamenti, il continuo suono delle sirene, l’estensione del conflitto anche sul fronte nord, l’angoscia per il destino degli ostaggi e per l’incolumità dei soldati, l’impotenza rispetto all’indifferenza delle istituzioni, la preoccupazione per il futuro economico e politico del paese, la crescente percezione di isolamento, per non parlare dei lutti che non fanno che moltiplicarsi, stanno logorando da 12 mesi il sistema nervoso anche dei cittadini più resilienti. Psichiatri, psicologi e assistenti sociali mettono l’accento sull’unicità dell’evento e la conseguente assenza di letteratura scientifica (evidence-based) applicabile e, benché i dati vengano raccolti, per la ricerca ci vorrà tempo; e soprattutto il protrarsi delle operazioni militari e il mancato ritorno degli ostaggi non consentono di iniziare un vero processo di riabilitazione. 

Già nel 2012 la sociologa Eva Illouz aveva accusato l’eccesso di terapia e la medicalizzazione neoliberista operata dagli psicologi di privatizzare le anime a scapito delle esigenze della collettività. Proprio la rabbia e il disagio che il sistema cerca di addomesticare, sono invece secondo Illouz il motore di quelle rivoluzioni politiche di cui la società israeliana  necessiterebbe per uscire dalla crisi. Tuttavia, contrariamente a una certa psichiatria storicamente interessata a rendere infantile il soggetto per poterlo “gestire” più facilmente, la psicoanalisi si presumerebbe essere meglio attrezzata per sostare nelle contraddizioni e reggere la complessità, includendo nella narrazione anche l’empatia per “l’altro”.

Eppure, nemmeno spostandosi dal servizio pubblico alle sedute sul lettino si vede la luce in fondo al tunnel. Una problematica tendenza della società psicoanalista israeliana a trattare i pazienti prostrati dalle circostanze politiche e militari come vittime passive di un destino avverso non è del resto cosa nuova, ma dal 7 ottobre la deresponsabilizzazione del paziente ha raggiunto l’apice, insieme all’abuso dei paragoni con la Shoah. Un peccato, perché non si tratterebbe affatto di sminuire la sofferenza ebraica, bensì di ridurla, coadiuvando i pazienti nell’assumere un ruolo attivo come soggetti politici, spingendoli a ricercare le cause del deteriorarsi della democrazia etica, affinché si accenda in loro il desiderio di adoprarsi per cambiare la realtà. 

Il silenzio di troppa parte degli psicoanalisti israeliani e la rimozione dell’umanità del palestinese anche dal campo analitico sono segnali allarmanti. Non c’è dunque da stupirsi se, in un contesto dove neppure l’analista ha fatto i conti con i traumi generazionali (in questo caso il riferimento è alla Shoah, ma lo stesso vale per la Nakba), la guerra diventa una sorta di risposta psicotica della società al tentativi di elaborare lutti e perdite, e la strada verso un regime autoritario permeato da nazionalismo e fondamentalismo si accorcia sempre di più.

Da qui l’appello dello psicologo politico israeliano Daniel Bar-Tal, che in un suo recente saggio afferma che “noi civili israeliani e palestinesi da soli non ce la facciamo, abbiamo bisogno che il mondo ci dia una mano per fermare questa strage”. Verosimilmente la richiesta è rivolta alle istituzioni in generale, tuttavia a mobilitarsi per restituire agli israeliani la soggettività politica potrebbero essere per prime proprio le società psicoanalitiche di tutto il mondo. Se la psicoanalisi è una preziosa eredità ebraica, questo è il momento di dimostrare la propria gratitudine, prendendosi “cura” dell’anima di Israele anche a rischio di venire ingiustamente accusati di antisemitismo.

Nell’immagine: le fotografie di oltre 1000 persone uccise, rapite o scomparse nell’attacco terrorista del 7 ottobre in mostra all’Università di Tel Aviv

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