La «cura» di Israele deve coinvolgere anche la diaspora ebraica
Dopo un mese di guerra e di stragi nei due campi, di stanchezza e di dilemmi, la società israeliana si interroga sul ritorno dell’antisemitismo. La lezione di Abraham Yehoshua
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Dopo un mese di guerra e di stragi nei due campi, di stanchezza e di dilemmi, la società israeliana si interroga sul ritorno dell’antisemitismo. La lezione di Abraham Yehoshua
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Dopo un mese di guerra e di stragi nei due campi, di stanchezza e di dilemmi, la società israeliana si interroga sul ritorno dell’antisemitismo. La lezione di Abraham Yehoshua
Dalla nostra corrispondente da Tel Aviv
Sono trascorse ormai cinque settimane dallo spaventoso massacro del 7 ottobre che ha innescato uno dei conflitti più drammatici dell’epoca contemporanea in termini di violenza e di numero di morti.
Israele ha dimostrato di avere una leadership incompetente. Il paese si regge sulle spalle dei civili, che hanno sfoderato forza d’animo, coraggio e una solidarietà commovente. Ma dopo un mese la stanchezza si fa sentire, l’incertezza logora, la preoccupazione per la propria incolumità fisica sfibra, la crisi economica angoscia e le domande sul futuro si moltiplicano di giorno in giorno.
La sfida è eccessiva anche per il sistema nervoso più resiliente. Ci si richiede di affrontare il trauma per gli orrori che abbiamo sentito raccontare e visto nei filmati, di elaborare il lutto per le vittime del massacro e per i soldati caduti, di sostenere l’attesa snervante del ritorno degli ostaggi e di occuparci della cura degli sfollati del sud. Bisogna sostenere il dolore e la rabbia per quanto avviene a Gaza, l’offensiva definita “necessaria” contro Hamas sembra sfuggire di mano di ora in ora in termini di numero di morti e di sfollati, questi ultimi costretti ad abbandonare le loro case per tentare di sottrarsi alla morte. Già sfibrati da anni di occupazione, i palestinesi sono allo stremo delle loro forze, e la riprovazione del mondo nei confronti della ferocia di Israele toglie il fiato.
Un’ altra fonte di dolore è quella della repressione nei confronti dei palestinesi di cittadinanza israeliana colpiti soprattutto nella libertà di espressione e di manifestazione politica, allontanati dai posti di lavoro ed arrestati con estrema facilità. Anche gli attivisti israeliani sono presi di mira e soprattutto i tentativi di partnership arabo-israeliana mai come ora sono messi a dura prova. Come se non bastasse, le frange estremiste dei coloni ebrei approfittano della situazione e seminano il terrore in Cisgiordania commettendo atti spaventosi contro i palestinesi. A questo si aggiunge la rabbia profonda nei confronti delle istituzioni, del governo arrogante e scellerato che ha fatto precipitare Israele nel baratro più spaventoso mai conosciuto, e che non ha ancora riportato a casa gli ostaggi.
I cuori dei due i popoli sanguinano, sono appesantiti e chiusi, la violenza e la paura sembrano aver soffocato ogni capacità di empatia reciproca. Complice la becera propaganda di entrambe le parti che si insinua nelle viscere dei civili, sono apparentemente pochi quelli che, rifiutando di cedere alla seduzione dell’odio e della vendetta, riescono a mantenere lucidità e umanità, nella convinzione che una convivenza pacifica sia l’unica via possibile.
Ci vorrà tempo affinché le ferite si rimarginino, e nonostante questo le voci che nutrono la speranza non mancano, anzi ogni giorno che passa si moltiplicano, insieme alle manifestazioni di protesta, e alle iniziative di solidarietà condivise portate avanti da organizzazioni come Standing together.
Quello che invece continua a sembrare inaccettabile è l’odio che dilaga a migliaia di chilometri di distanza dall’arena di guerra, e che assume alternativamente la veste di islamofobia e antisemitismo. Dell’antisemitismo in tutte le sue forme, vecchie e nuove, deve farsi carico l’Occidente che non ha mai saputo superare gli stereotipi di matrice cristiana, orientalista o nazionalista a carico del popolo d’Israele. Le stelle di Davide, le svastiche, gli atti vandalici e di violenza, le minacce di morte e gli slogan, che nelle scorse settimane hanno preso di mira obiettivi ebraici in ogni dove, sono l’ennesima espressione di un odio latente che si scatena ad ogni pretesto. La rabbia nei confronti dell’esercito israeliano e la critica, più che legittima, alla politica del governo Netanyahu, non possono assumere i contorni della svastica senza venire totalmente delegittimati. L’utilizzo della simbologia del nazismo e della Shoah sono non solo profondamente impropri nella comunicazione intorno all’attuale conflitto fra Israele e Hamas, ma estremamente dannosi in quanto alimentano una spirale di violenza e allontanano qualunque prospettiva di pace facendo semmai il gioco di Hamas e Netanyahu.
Abraham B. Yehoshua ha espresso per anni forti critiche agli ebrei della diaspora, sostenendo tra le altre cose che l’anomalo binomio identitario di religione e nazione che li contraddistingue (Il labirinto dell’identità: scritti politici, Einaudi, 2009) esporrebbe gli ebrei all’antisemitismo e, di conseguenza, impedirebbe loro di vivere una vita come tutti gli altri (Antisemitismo e sionismo. Una discussione, Einaudi 2004). Nel suo romanzo Un divorzio tardivo (Einaudi 1996) lo scrittore ha persino inferto una punizione esemplare al protagonista israeliano Yehuda Kaminka che aveva “tradito” la madrepatria per trasferirsi negli Stati Uniti. Kaminka finirà infatti assassinato dalla moglie schizofrenica per la sua ambivalenza nei confronti della “casa Israele” che non riesce ad abbandonare del tutto, benché oltreoceano lo attendano un lavoro e una nuova famiglia. Secondo Yehoshua l’unica normalizzazione possibile per gli ebrei sarebbe attuabile solo all’interno dei confini di uno Stato entro i quali, detenendo la sovranità, essi divengono autonomi e responsabili del loro destino, nel bene e nel male.
Se oggi è più che mai evidente che il processo per questa normalizzazione non si è ancora realmente compiuto – né potrà compiersi finché perdura l’occupazione dei territori palestinesi – il fatto che gli ebrei si sentono minacciati sia dentro che fuori Israele riconferma il legame profondo tra Israele e la diaspora. Da qui la necessità che non solo gli israeliani, ma anche gli ebrei di tutto il mondo si prendano cura, senza compromessi né paura, della natura democratica dello Stato di Israele, dei suoi governi, della sua etica e del suo pluralismo, anche in termine di libertà di critica e di espressione.
Nel frattempo, mentre ci auguriamo di assistere al più presto al ritorno degli ostaggi, al cessate il fuoco e all’implementazione di una soluzione politica che garantisca una pace nel lungo periodo, l’Europa è chiamata a prendere provvedimenti, riflettendo sulle proprie modalità di integrazione, nonché aggiornando le politiche della memoria, nella speranza di arrivare al prossimo 27 gennaio (Giornata della Memoria) con più fatti e meno parole.
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