Istituzione – destituzione

Istituzione – destituzione

Spunti di riflessione in margine alla serata di Naufraghi/e dedicata all’autogestione


Maurizio Chiaruttini
Maurizio Chiaruttini
Istituzione – destituzione

Il bel documentario di Felice Zenoni “La spia e gli anarchici”, che ieri sera Naufraghi/e ha proposto come avvio per una discussione su “Principi, regole e derive del confronto democratico”, ha molto da insegnare sul piano storico e anche su quello simbolico.

A distanza di 40 anni, due protagonisti delle lotte zurighesi per l’autogestione, che hanno militato su fronti contrapposti, si incontrano, discutono, rievocano. Il sorvegliante e il sorvegliato, il gendarme e il ribelle. Ognuno a partire dalla propria prospettiva, ognuno con i propri ripensamenti ma anche con le proprie certezze, senza rinnegare la propria identità  e la propria storia personale. L’interesse del documentario sta soprattutto in questo: nel racconto dei fatti turbolenti e violenti che hanno portato alla creazione e poi alla demolizione del primo centro autogestito zurighese,  l’AJZ, a partire da due punti di vista contrapposti eppure, alla fine, da qualche parte convergenti.

Dopo quei fatti (lo ha raccontato durante la discussione Tiziana Mona, che ne fu testimone in quanto giornalista) il riconoscimento da parte dei cittadini e delle autorità zurighesi della legittimità delle richieste del movimento giovanile portò alla costituzione della Rote Fabrik quale centro autonomo, sussidiato e riconosciuto per il suo contributo culturale e creativo allo spazio pubblico cittadino.

Oggi, a Lugano, il clima politico è molto diverso da quello della Zurigo di quarant’anni fa, ma – lo ha ricordato Pietro Martinelli – è diverso anche dal clima che, all’inizio del duemila, portò alla cessione agli autogestiti degli spazi dell’ex macello.

È diverso il clima o sono diverse le persone che gestiscono il potere?

Il clima lo è certamente. L’analisi di Christian Marazzi lo ha messo bene in evidenza: il sovranismo al potere, soprattutto in un dipartimento chiave come quello cantonale delle Istituzioni, ha assecondato, quando non incoraggiato, le pulsioni latenti di rifiuto del diverso in tutte le sue manifestazioni: i migranti, gli stranieri, i frontalieri, gli “alternativi”.

Ma la lega c’era anche nel 2002, quando Giorgio Giudici, Nano Bignasca e Giovanni Cansani, insieme alle autorità cantonali, misero a disposizione degli autogestiti gli stabili dell’ex macello. Sono quindi mutate le condizioni politiche e sociali, ma è mutato anche l’atteggiamento di chi regge le redini del potere cittadino.

La maturità e la professionalità di un’autorità politica si misurano anche – e soprattutto – rispetto alla capacità di calcolare la portata e le conseguenze pratiche, politiche e simboliche dei propri atti. Lungimiranza politica significa proprio questo. E le vicende di queste settimane dimostrano che la lungimiranza non sembra più essere considerata un requisito essenziale per chi gestisce le sorti di una città: vale, come in altri campi, l’impulso immediato, la reazione a caldo, l’esibizione muscolare.

Ma l’autoaffermazione inconsulta nasconde spesso una debolezza, una mancanza di saldezza identitaria e di coscienza di sé.

Uno degli interrogativi emersi durante la serata è stato quello relativo alle contraddizioni interne al movimento autogestito. All’ambivalenza rispetto agli atteggiamenti vandalici di alcune frange del movimento, ad esempio; o al rifiuto di istanze di mediazione e di scelte comunicative efficaci nei confronti della popolazione e del Municipio. Come si può dialogare con chi si nega al dialogo? Come ci si può riconoscere reciprocamente a partire da posizioni così diametralmente opposte?

Messa da parte la risibilità di proposte municipali che mirano a relegare l’autogestione in periferia misconoscendone l’essenza eminentemente urbana, questi interrogativi rimandano a una questione che rimane cruciale. Certo, il dialogo fra istituzioni paritarie è più semplice. Ma la prova di maturità a cui sono chiamate le istituzioni cittadine sta proprio nel fatto di doversi confrontare non con un’istituzione, ma con un’istanza radicalmente diversa. Proprio questo è il terreno di prova della ponderatezza e della saldezza identitaria di un’istituzione: il  confronto con l’alterità.

È in libreria da qualche tempo un volumetto della filosofa Donatella Di Cesare intitolato “Il tempo della rivolta”. Il libro è utile per illuminare almeno una caratteristica dei movimenti anarchici, anche laddove si consolidano in un’esperienza associativa come questa dell’autogestione: essi si autopercepiscono e si autorappresentano non in quanto istituzione ma, letteralmente, in quanto destituzione. L’istituzione cristallizza, aggrega, solidifica, dà forma. La destituzione, al contrario, si vuole fluida, disaggregante, oppositiva. Potremmo dire che una risponde a un’istanza apollinea, l’altra a un’istanza tendenzialmente dionisiaca.

Il tema dell’autogestione rappresenta una prova di maturità e di solidità identitaria per le istituzioni cittadine entro questo confronto apparentemente irresolubile: un’istituzione si mostra salda e consapevole di sé quando è in grado di riconoscere la possibilità simbolica della propria destituzione.

Le grandi città come Zurigo hanno saputo fare questo passo e – come ha sottolineato l’architetta Katia Accossato- ne hanno beneficiato in termini di vivacità e di stimoli creativi.

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