Gianni Vattimo, l’avventuriero della differenza

Gianni Vattimo, l’avventuriero della differenza

Un ricordo del grande filosofo e politico torinese, teorico del “pensiero debole”


Mauro Minoletti
Mauro Minoletti
Gianni Vattimo, l’avventuriero della...

“Se la morte è la morte
dove finiranno mai i poeti
e le cose addormentate
che nessuno più ricorda?“
si interrogano le parole di Federico Garcia Lorca nella “Canzone d’autunno”.

E tu, Gianni Vattimo, dove sei adesso? Le opere del sorprendente, coraggioso e dissacrante filosofo torinese ci hanno insegnato che anche questa, come tante altre domande – dalle più metafisiche alle più quotidiane, pare accendere in modo inevitabile, in questo nostro tempo, risposte inattese, incomplete, ma non per questo necessariamente insoddisfacenti, anzi.

E come mai questo accade? Eh, signora mia, lo diceva il Nietzsche (1844-1900) in contrapposizione ai sistemi di pensiero che tutto spiegavano, da Platone (428 / 427 – 348 / 347 a.C) a Hegel (1770 – 1831): ormai non ci sono più fatti, solo interpretazioni, non tirartela essere umano. Che detta così dice e non dice… Ci ha pensato Heidegger (1889 – 1976) a far dirompere la faccenda in libri come “Essere e tempo” (1927): titolo meraviglioso, geniale! Essere e tempo: quanto per secoli abbiamo considerato stabile, collegato in modo inconfutabile con quanto per secoli abbiamo considerato mobile. Nein, sostiene il Martin: l’Essere si svela necessariamente nel corso del tempo della nostra vita, della nostra morte.

La toccante grandezza di Vattimo sta nell’aver inverato – con una ben maggiore empatia – questa scoperta di uno dei suoi maestri con i percorsi della sua stessa esistenza: con il tentativo di tenere uniti cattolicesimo e omosessualità (certamente immaginandosi un Dio magari sfuggente ma non crudele, in questo parrebbe dissimile da quello perpetrato da certo vescovo emerito); con una capacità di dialogo e comprensione ermeneutica applicata negli interventi giornalistici come nelle prese di posizione politiche, magari spiazzanti ma mai intolleranti.

Un tipo originale, il Gianni, ma non per caso: è la struttura ontologica stessa dell’Essere, come da lui compresa, che gli dettava questi comportamenti. Se l’Essere non è dato una volta per tutte, come facciamo ad essere sicuri di alcunché, a ritenere eliminabile anche la differenza più umile, posto che il nostro stesso pensiero si rivela essenzialmente debole? Perché l’Essere, in una strepitosa, gustosa definizione di Vattimo è “camolato”, come roso dal tarlo del tempo.

Quello che io ritengo – da appassionato, certo non da specialista della materia – il mio maestro, Emanuele Severino (un gigante del pensiero) non si prendeva tanto con Vattimo: il loro duello in una lontana, bellissima puntata di un meritorio programma tv condotto dal secondo, “La clessidra” (Rai, 1986, la trovate online), fu memorabile. La concezione dell’Essere in Severino è radicalmente diversa: non qualcosa come a buchi di senso da scoprire, ma come uno stato compiuto, eternamente eterno in ogni nostro atto.

E allora, quando non ci siamo più che ci succede? Oh nulla direbbe Severino: non andiamo mica da nessuna parte, quasi che dallo stato compiuto potessimo uscire o divenire altro (divenire, come verbo, piaceva pochissimo allo studioso bresciano). Ci crediamo mendicanti, ma siamo come dei.
Ah, lo scontro a parole: appassionante! Un altro pilastro della filosofia, Jaspers (1883 – 1969), seguace della riflessione pratica, utile a vivere (Galimberti è un suo allievo), dopo aver polemizzato per anni con Heidegger (per colpa dei suoi furbeschi comportamenti accademici più che in odor sospetto di nazionalsocialismo) lascia morendo uno scritto d’addio proprio al rivale che toglie il fiato: “Quest’uomo però è stato un mio cavalleresco avversario: le potenze che noi servivamo, infatti, erano irriducibili tra loro”. “Peccato non esserci più incontrati in alta montagna”, scrive, dove “l’aria è talmente pura che dissolve ogni opacità ”.

Ma come sarebbe potuto accadere questo? Cosa rende possibile, malgrado concezioni dell’Essere stesso che potrebbero renderlo impossibile, il confronto o il suo anelito tra posizioni tanto distanti, tra il pensiero debole di Vattimo e gli eterni di Severino, mentre la morte tutto sembra cancellare?

Un altro sublime poeta, il polacco Milosz (1911 – 2004) ne “Il senso” ribatte:
“Ma se non c’è una fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un segno
ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
si susseguono senza badare a un senso
e non c’è nulla sulla terra, oltre questa terra?
Se così fosse, resterebbe ancora la parola
suscitata una volta da effimere labbra,
che corre e corre, messaggero instancabile
nei campi interstellari, nei vortici galattici
e protesta, chiama, grida.”

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