Massimo Carlotto, ovvero quando il noir racconta la realtà

Massimo Carlotto, ovvero quando il noir racconta la realtà

Ospite a Massagno, lo scrittore, sceneggiatore e autore teatrale Massimo Carlotto ha parlato del ruolo della letteratura poliziesca nell’Italia odierna. Annunciando inoltre l’imminentissima uscita da Einaudi del suo nuovo romanzo


Michele Ferrario
Michele Ferrario
Massimo Carlotto, ovvero quando il noir...

L’Alligatore che ospitiamo sulla zattera è in realtà il soprannome di Marco Buratti, il personaggio seriale più noto dello scrittore Massimo Carlotto (Padova, 1956). Un detective privato della Padova anni Novanta: canta in un gruppo blues tra fumo e Calvados, ha frequentato il mondo della malavita, si è fatto sette anni di galera e, una volta libero, sfruttando le sue passate frequentazioni, si mette al servizio degli avvocati per scoprire elementi utili in una causa. Una figura che la serie TV, coprodotta da Rai Fiction e Fandango, ha reso ancora più amata facendo di Carlotto uno degli autori italiani più tradotti e venduti anche all’estero: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Grecia, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Romania.

La saga dell’Alligatore comprende 9 romanzi: il primo, La verità dell’Alligatore, venne pubblicato – come i successivi, dalle edizioni e/o di Roma – nel 1995. L’attore Gigio Alberti ne ha letto ampi stralci durante la serata che si è svolta recentemente al LUX art house di Massagno, nell’ambito di “Tutti i colori del giallo”.

Questa figura di culto tra gli appassionati di noir sta per compiere 30 anni e tornerà in libreria nel 2025, mentre, il 9 aprile da Einaudi, uscirà il romanzo Trudy, in cui si parlerà del settore – in forte, non del tutto controllata espansione – della sicurezza privata e della cybersecurity. Carlotto si interroga sui limiti che ne regolano l’impiego, sui mezzi e le tecnologie di cui dispone per operare, sulle zone grigie della legislazione (intercettazioni, tra legalità e illegalità), sui suoi legami con il mondo della politica e dell’economia.

“Trudy non è un saggio, è sempre un romanzo” ha avvertito Carlotto, nel tentativo di rassicurare i suoi lettori, già colpiti da uno strillo insolitamente inquietante (“Dopo aver letto Trudy, camminando per strada ti verrà voglia di guardarti le spalle”).

Pochi minuti prima, sollecitato sul proliferare di magistrati, funzionari e poliziotti che, sia durante la loro vita professionale che dopo la pensione, hanno cominciato a scrivere dei gialli, ha allargato lo sguardo: “Il rapporto che ha l’Italia con la verità continua ad essere profondamente perverso, tanto che, da un punto di vista dell’immaginario collettivo, gli italiani hanno rinunciato alla verità, nel senso che ci hanno così disabituati alla verità che nessuno crede più a nulla. Anzi, più è istituzionale una verità, meno la gente ci crede. E questo è un grossissimo problema, perché mette in crisi la stampa, mette in crisi i media in generale, mette in crisi le istituzioni. In realtà qualche ragione c’è per tutto questo. Cercare di ristabilire, almeno in un romanzo, la verità, secondo me, è una cosa necessaria: è uno di quegli impegni che la cultura deve avere, nel senso che il romanzo, anche se è la cosa più finta che c’è al mondo, può raccontare molto, perché può raccontare la realtà.

Il “metodo Carlotto”, la fortunata formula dei suoi libri “è di dire che la storia criminale è una scusa per raccontare altro, per raccontare tutto quello che ci sta intorno, e quindi tu usi una storia criminale, che ha un inizio, che ha uno svolgimento e una fine, che però ti permette di dare uno sguardo. Una sorta di fotografia di un momento, di un luogo. Non mi interessa la microstoria, anche se funziona molto bene dal punto di vista della trama. Mi interessano storie che abbiano un senso generale: questo mi costringe ad avere uno sguardo ossessivo sulla realtà e a cercare continuamente di scavare e di avere un’idea di quello che mi succede attorno”.

L’altra sera, per festeggiare i 20 anni del Festival Tutti i colori del giallo, organizzato dal Comune di Massagno, ospite d’onore era proprio il padre dell’Alligatore. Il quale, pur raccontando la genesi del personaggio, l’origine e gli spunti per le sue inchieste (uno, narrato in La banda degli amanti (2015), venne suggerito a Carlotto da una lettrice di Massagno), ha spinto il proprio sguardo più in là, insistendo sul nuovo ruolo della migliore letteratura poliziesca, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica sui rischi anche criminali della globalizzazione. Allo scrittore, il moderatore della serata Piergiorgio Pulixi ha chiesto come mai il tema della grande criminalità è pressoché assente dai media e dal dibattito pubblico mentre un altro giallista tra i maggiori, Carlo Lucarelli, ha dichiarato che proprio i romanzi di Carlotto sono la fonte migliore per studiare l’Italia odierna confrontata con l’emergenza ambientale, sociale, ma anche criminale.

Il problema è che la narrazione della cronaca nera in Italia è veramente spicciola. C’è un circo mediatico che si appropria di alcuni casi e li fa durare all’infinito: di molti non ce ne libereremo mai più, perché rimarranno profondamente ancorati nella memoria collettiva. Dopodiché vengono continuamente ritirati fuori e riraccontati. Il problema è che la cronaca nera non riflette il vero livello del crimine, nel senso che i cittadini non sono correttamente informati rispetto al livello di criminalità che c’è nel Paese. Da una parte abbiamo la criminalità organizzata e le culture mafiose; abbiamo un’economia – chiamiamola nera – che si è fusa con quella legale. Con un’infiltrazione spaventosa: in Italia, poi, sono presenti tutte le mafie: io vengo dal Nord Est, storicamente un territorio con un sistema economico fatto apposta per riciclare. E abbiamo tutte le culture mafiose sia nostrane che estere”.

A ciò – continua Carlotto – “si è aggiunta, da vent’anni a questa parte, un’altra dimensione criminale, che io chiamo del signor Rossi: persone che non hanno mai avuto a che fare un disagio sociale, che non hanno nulla a che fare con la criminalità, hanno cominciato a usare il crimine come scorciatoia per risolvere i propri problemi. Ed è diventato in Italia un fattore endemico. Queste persone commettono dei crimini per una parte della loro vita e poi non fanno una scelta di campo diventando dei criminali, no, usano il crimine come scorciatoia. Mi riferisco a bande che si formano per lo smaltimento illegale dei rifiuti, tutti incensurati che si mettono anche a servizio della criminalità; incensurati che commettono reati fiscali, e così via”.

Di tutti questi aspetti carta stampata e TV parlano poco o non parlano affatto, mentre si dà risalto a un crimine di livello familiare (drammi passionali, femminicidi, vendette) che, per quanto drammatico, è di basso cabotaggio. Il compito di aprire gli occhi all’opinione pubblica viene così un po’ paradossalmente affidato alla fiction e al giallista che, per scrivere un suo romanzo, fa dapprima una propria inchiesta di tipo giornalistico, ne trae gli spunti più legati alla realtà e la mischia alla trama romanzesca.

Questa sorta di “contro-narrazione” affidata alla letteratura ha coinvolto anche servitori dello Stato: l’Italia, osserva Carlotto, è l’unico Paese in cui magistrati e appartenenti alle forze di polizia scrivono dei romanzi noir. “Quando lo raccontiamo all’estero, la gente ride, dice ma no, il loro lavoro viene raccontato dalla stampa. Eh no! Se andate a leggere i romanzi di questi servitori dello Stato, vi rendete conto che la loro narrazione non ha nulla a che vedere con quella ufficiale, racconta altro, e questo è un punto di vista molto interessante: vuol dire che il genere è comunque uno strumento per raccontare la realtà”.


L’intervento integrale di Massimo Carlotto a Tutti i colori del giallo 2024

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