Balcani Occidentali: la terra desolata d’Europa

Balcani Occidentali: la terra desolata d’Europa

Fra stasi e attesa, la situazione dei Paesi che vorrebbero aderire all’UE ma che l’UE non sa se e come accogliere senza porsi prima anche la questione del proprio stesso funzionamento


Cristian Ferretti
Cristian Ferretti
Balcani Occidentali: la terra desolata...

Esattamente cento anni fa, Thomas Stearns Eliot pubblicò il suo celebre poema “The Wasteland” o “La Terra Desolata” in italiano. L’ombra lunga della Grande Guerra e del conseguente crollo psicologico del poeta avevano portato quest’ultimo a descrivere un mondo caotico, in cui i personaggi rimangono in una perenne attesa di redenzione. Gli strascichi della guerra, il vuoto, l’insignificanza delle parole che diventano versi onomatopeici, sembrano ben descrivere anche l’attuale situazione in cui si trovano molti paesi dei Balcani rispetto all’Unione Europea ormai da decenni. In una parola: desolazione. 

Lontani ma vicini

Situazione dei Balcani occidentali (grafico da Internazionale)

Ursula Von der Leyen, che questa settimana ha visitato diverse capitali della regione per parlare di politiche energetiche, aveva anche implicitamente l’obiettivo di un riavvicinamento ai sei paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Kosovo, Montenegro, Serbia – che ambiscono tutti ad entrare nell’Unione. Una missione quasi impossibile ma necessaria, trattandosi di una zona geostrategica di primaria importanza per il continente, ancor di più alla luce della guerra in Ucraina, ma dove il malcontento verso l’UE non ha fatto altro che aumentare, come si è visto all’ultimo Consiglio europeo, nel giugno scorso. Una situazione di impasse che accresce questo sentimento di desolazione, e che incrementa di molto il rischio di influenze esterne.

In primis della Russia, i cui Investimenti Diretti Esteri (IDE) nei Balcani sono particolarmente importanti in Bosnia-Erzegovina (8% del PIL) e Montenegro (addirittura 30% del PIL). In Serbia invece, l’unico paese balcanico a non aver imposto sanzioni alla Russia a causa del conflitto ucraino, Gazprom controlla sia la sola raffineria che il solo impianto di stoccaggio di gas serbi. Inoltre, il partito autocratico al potere nonché una buona parte dei cittadini serbi è, per ragioni sia politiche che culturali, filorusso. Seppure l’Unione Europea sia il primo partner commerciale della Serbia, secondo un recente sondaggio, solo il 20% della popolazione sostiene la domanda d’adesione all’UE. Per questo motivo, Belgrado è considerata da molti il cavallo di Troia in Europa di Mosca. 

Anche la Cina, nell’ottica della sua Nuova Via della Seta, ha ampliato molto la sua influenza nella regione durante questi ultimi anni, approfittando del vuoto creato dal disinteresse dell’Unione Europea per i Balcani. Per restare in Serbia, le cui importazioni dalla Cina aumentano ogni anno, Pechino si è assicurata contratti per costruire strade, ponti, investire nell’educazione, oltre a detenere acciaierie, nonché miniere di carbone e di rame – ci si aspetta che la Serbia diventi a breve il secondo più grande produttore di rame in Europa dopo la Polonia. 

Un episodio emblematico per quel che riguarda le influenze cinesi nei Balcani, è quello  dell’autostrada costruita in Montenegro, che dovrebbe collegare la costa adriatica a Belgrado, capitale della Serbia: il progetto è stato finanziato dalla Cina con un miliardo di euro, ed ha lasciato   un paese già molto indebitato sull’orlo del fallimento ancora prima che l’infrastruttura fosse completata, “una strada che dal nulla finisce nel nulla” l’ha definita scherzando amaramente l’ex ministro della giustizia montenegrino, Dragan Soc. Per di più, nelle clausole del contratto vi è anche il fatto che, nel caso il Montenegro non ripagasse il debito, i terreni percorsi dall’autostrada andrebbero di diritto a Pechino, cosa che, inoltre, verrebbe decisa da un tribunale cinese. Attualmente, comunque, diverse banche europee ed americane hanno deciso di stanziare dei finanziamenti per evitare che il paese balcanico cada nella trappola del debito cinese. 

Poiché tutti i paesi dei Balcani Occidentali sopracitati sono candidati, pur avendo status diversi nel proprio percorso, ad essere membri dell’Unione Europea: quali sono le loro reali possibilità di accedervi? 

Retorica della politica o politica della retorica? 

Al fine di superare i numerosi ostacoli verso un’integrazione nell’Unione Europea da parte dei Balcani Occidentali, negli ultimi anni sono state proposte diverse alternative, non senza riscontrare opposizione all’interno dell’Unione stessa. 

Il caso più eclatante è sicuramente quello della Macedonia del Nord, che per accontentare i vicini ellenici, che vedevano come un’onta il fatto che il vicino paese avesse lo stesso appellativo di una loro regione, ha dovuto cambiare nome, sia per entrare nella Nato che per chiedere l’adesione all’UE. Tolto il veto greco, ecco quello bulgaro: in questo caso la Bulgaria voleva che la Macedonia del Nord riconoscesse la propria lingua come un dialetto bulgaro, oltre che riconoscere la minoranza bulgara nella propria costituzione. Per calmare le acque, la Francia, che al tempo deteneva la presidenza di turno UE, ha spinto perché il parlamento macedone accettasse almeno alcune tra le richieste bulgare, cosa che si è poi realizzata e conclusa con il ritiro del veto da parte del parlamento di Sofia. È importante notare che durante tutto questo tempo, anche l’Albania non ha potuto avanzare nella sua richiesta di adesione all’UE, proprio perché bloccata dalla disputa tra Macedonia del Nord e Bulgaria, essendo entrambe nella stessa situazione di attesa riguardo all’accettazione della loro integrazione all’Unione. 

La Francia è anche all’origine della proposta per una “comunità politica europea”: una sorta di surrogato dell’UE, che oltre ai 27, includerebbe potenzialmente un’altra quindicina di stati della zona geografica europea: questi comprenderebbero i paesi dei Balcani Occidentali, un ex membro dell’Unione come il Regno Unito, paesi al confine geografico come l’Armenia, o nella situazione della Svizzera, che si rifiuta di aderire all’UE, ma che allo stesso tempo necessita di uscire dal limbo in cui si trova dopo aver rifiutato l’accordo quadro l’anno scorso. Un tempo la chiamavano “Europa a due velocità”, ma ha davvero senso un tale progetto o sarà, come molte analoghe iniziative – ricordiamo ad esempio la “Confederazione europea” proposta da Mitterrand più di trent’anni fa – l’ennesimo esercizio di retorica senza futuro? Sarà forse l’opposizione alla Russia il denominatore comune tra nazioni con visioni ed obiettivi così diversi? O questo progetto rischia di diventare un “parcheggio” per gli stati che ambiscono ad entrare nell’Unione Europea? Quest’ultima è l’opzione più probabile, dati i tempi geologici necessari per passare da uno status all’altro prima di poter approdare finalmente al porto sicuro di Bruxelles. 

Per questo motivo tre anni fa è stata lanciata l‘iniziativa Open Balkans, una specie di mini-Schengen istituita tra Serbia, Macedonia del Nord ed Albania, per cui tra questi paesi possono circolare merci, lavoratori e studenti riconosciuti dai partner. Un progetto che vorrebbe idealmente dimostrare quanto possano essere competitivi e capaci di integrarsi in un progetto comune questi paesi. Alcuni analisti però, come Giorgio Fruscione di ISPI, affermano che questa non sia che una organizzazione di facciata atta ad incontrare spesso i leader degli altri paesi, ma che vorrebbe rimpiazzare il Processo di Berlino, progetto analogo lanciato da Merkel nel 2014, ma restato un po’ orfano della sua promotrice. 

In quest’ottica è possibile che non solo l’iniziativa Open Balkans, ma anche la Comunità Politica Europea non siano altro che uno specchietto per le allodole, un modo per rinviare la questione fondamentale della dimensione democratica in Unione Europea.

Stabilitocrazie

A monte di tutte le problematiche sopra descritte, la questione cruciale è che l’Unione Europea deve avviare delle riforme per migliorare la rappresentatività dei suoi membri, evitando allo stesso tempo le insidie poste dal veto, dimostratosi più uno strumento di ricatto che di democrazia, come abbiamo potuto osservare nella disputa tra Bulgaria e Macedonia del Nord. Srdja Pavlovic, storico serbo e montenegrino, ha recentemente coniato il termine “stabilitocrazie” per descrivere a cosa ambisce l’approccio tecnocratico dell’UE rispetto ai paesi dei Balcani Occidentali, favorendo governi che promettono stabilità – attraverso l’iniziativa Open Balkans, ad esempio – senza però implementare la democrazia. Il risultato è una perdita della credibilità delle istituzioni europee, ormai incapaci di premiare i passi avanti dei paesi in attesa di entrare nell’Unione, addirittura legittimando implicitamente governi autocratici. Il risultato di una tale condotta, secondo il ricercatore, è quello di generare “un profondo sospetto, se non un completo rifiuto dei processi d’integrazione, oltre ad una scarsa fiducia in istituzioni quali l’UE e la NATO”.

Senza una posizione comune sulla politica estera, fiscale e sociale, l’Unione Europea resta di fatto un’entità senza identità politica, senza un’anima democratica; peraltro, più il numero di paesi aumenta, più il problema del veto unico diventa un ostacolo insormontabile. A questo punto, due soluzioni sono possibili: o l’UE decide di cambiare i propri trattati fondatori, di modo da stabilire un nuovo sistema di voto a base maggioritaria, riaprendo nel contempo l’opzione di un’Unione federale di stati, oppure si stabiliscono diverse modalità per far parte del progetto Europeo – la Comunità Politica Europea proposta da Macron – rischiando di creare più frustrazione che entusiasmo, soprattutto da parte di paesi come i sei dei Balcani Occidentali, perennemente in attesa di capire se e quando verranno integrati nel nell’Unione. 

Non a caso Edi Rama, primo ministro albanese, a latere del Summit Europeo di questo giugno ha definito lo status di candidato ad entrare nell’UE una “pillola antidepressiva” e nulla più. Nel frattempo, Russia e Cina continuano ad avere gioco facile ad imporre la loro influenza economica e politica in una terra europea oramai geopoliticamente desolata.

Nell’immagine: murale di Banksy a Dover e riferito alla Brexit (2017)

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