Quando il pedagogichese offusca la scuola

Quando il pedagogichese offusca la scuola

Piani, progetti e documenti incomprensibili per un'istituzione che dovrebbe invece ritrovare attenzione per il senso e i contenuti della formazione


Fabio Camponovo
Fabio Camponovo
Quando il pedagogichese offusca la scuola

Poco più di cinque secoli fa Niccolò Machiavelli scriveva, nella dedica a Lorenzo de’ Medici della sua opera più famosa (Il principe), di non averla “ornata né ripiena di clausole ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco…”. Intendeva significare con ciò che il suo contributo, contrariamente a quello di coloro che dipingevano governi ideali, non solo si sarebbe fondato sulla “verità effettuale della cosa”, ma avrebbe anche espresso un’analisi delle esperienze fattuali in termini chiari e argomentati.

Mi si consenta ora, con un accostamento contrastivo, di avvicinare il principio machiavelliano alla proliferazione di testi criptici (programmatici e formativi) con i quali le scienze dell’educazione stanno modificando il panorama linguistico-testuale nonché le fondamenta concettuali della nostra scuola. Porto quindi provocatoriamente lo sguardo dal pensiero politico al pensiero educativo.

La lezione di Machiavelli non sembra essere stata recepita nella recente retorica pedagogica, neppure quando si tratti di documenti di interesse pubblico (riforme scolastiche, piani di studio e di formazione,…). In Ticino le prime avvisaglie di certa farraginosità linguistico-concettuale si sono avute con il progetto denominato “La scuola che verrà”, un progetto di riforma elaborato da un gruppo di lavoro ad hoc designato dalla Divisione della Scuola del DECS. Le reazioni fra gli insegnanti non furono entusiastiche e tale riforma (sia pure per ragioni perlomeno discutibili) fu successivamente bocciata in votazione popolare.

Altri e ben più allarmanti esempi di “clausole ample e parole ampullose” li troviamo alla lettura del nuovo Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese, un testo già una volta revisionato (eufemisticamente “perfezionato”), che rimane tuttavia di difficile decifrazione per qualsiasi genitore voglia capire che cosa studia, e che cosa impara, il proprio figlio a scuola. Un testo manierato, tutto speso nella celebrazione della didattica per competenze, che è idolo indiscusso degli attuali approcci all’insegnamento e all’apprendimento.

Ne trascelgo un piccolo esempio fra le decine e decine che si potrebbero citare: “La competenza si offre inoltre come paradigma didattico appropriato ad interpretare la realtà e ad agire su di essa, sostenendo l’individuo, che la conquista progressivamente, a esercitare un controllo attivo sui vari meccanismi di fruizione, comprensione e partecipazione alla vita culturale, ambientale, politica, sociale ed economica” (PdS, p.13). Come si sarà intuito già dall’andamento giustappositivo di questo minimo estratto, si tratta di un documento dall’evidente pretenzione (tutt’altro che fondato sull’essenzialità formativa, come avrebbe inizialmente voluto l’allora capo del dipartimento Manuele Bertoli), e come altri di questo genere unisce l’ambizione alla genericità e alla pletora espositiva (266 pp.).

In questi anni il più che giustificato desiderio di riforma tende purtroppo ad esprimersi in formule tortuose. Il politico (ma anche il cittadino) legga per esempio la bozza del nuovo Piano Quadro degli Studi (PQS) per le scuole di maturità. Distribuito agli insegnanti in una versione indegnamente tradotta dal tedesco (tanto sgarrupata da finire per offendere la dignità dell’insegnante liceale), si sviluppa anch’esso attorno a un nuovo concetto di competenza e vi si trovano formulazioni astruse che rendono di difficile comprensione i concetti. O ancora: si veda la riforma recentemente promossa dalla SEFRI (Segreteria di Stato per la Formazione, la Ricerca e l’Innovazione) nelle scuole professionali commerciali, dove in forza di “competenze professionali operative” scompaiono le discipline di studio. L’attenzione monotematica alle competenze è confermata dal recente testo “distribuito gratuitamente grazie al contributo della Divisione della Scuola”, con titolo La valutazione per competenze. Dalla teoria alla pratica [si veda in proposito un articolo dei tre autori del testo apparso nel sito de “La Regione”, ndr]. Chi non teme una lettura poco amena (ma allietata da schemi di varia foggia e da colorate faccine parlanti), lo cerchi in Internet. Vi troverà le stesse marche concettuali cui si è fatto cenno in precedenza e fra gli autori scoprirà la medesima persona che è (1) capo progetto responsabile del perfezionamento del piano di studi, (2) esperto di scienze dell’educazione nella scuola dell’obbligo, (3) professore DFA/SUPSI, (4) rappresentante designato dalla Divisione della Scuola nel gruppo di accompagnamento della sperimentazione per il superamento dei “livelli”. Perbacco perbacco!

Si direbbe che di scuola e di senso educativo non si possa più parlare in modo coinvolgente ed efficace. Eppure, richiamando per converso un esempio di prosa cristallina, la scuola ha ricevuto più impulsi da un solo paragrafo di Lettere a una professoressa di don Lorenzo Milani, che dalle centinaia di pagine prodotte dai pedagogisti nostrani (è per altro curioso che il centenario della nascita del sacerdote e maestro di Barbiana – caduto proprio qualche mese fa – non sia stato accompagnato da particolari iniziative della nostra scuola).

Le forme linguistiche e testuali non sono mai neutre! Negli ultimi decenni troppo spesso il contributo delle scienze pedagogiche è confluito in ampie discettazioni para-didattiche difettando invece nella riflessione sul senso profondo dello sviluppo cognitivo e sul venir meno di un canone scolastico culturale. In una scuola che, ricordiamolo, è “istituzione educativa al servizio della persona e della società” (art. 1 della Legge della scuola). Tutto questo in un tempo nel quale l’istituzione scolastica fatica a ritrovare una sua identità educativa, confrontata come è con agenzie formative più suasorie, con una concezione ‘liquida’ del sapere (un “sapere per agire” più che un “sapere per capire”) e un consumo frenetico di beni materiali e immateriali. Confrontata con uno sviluppo impressionante delle forme digitali e delle processazioni intellettive che ad esse si collegano (presto saremo alle prese, anche scolasticamente, con l’intelligenza artificiale), con la superficialità banalizzante dei social network, con l’affermazione perniciosa di una virtualità relazionale. È una scuola che, piegata alla competenza, rischia di trascurare il senso emancipatore della conoscenza. Per questo occorre restituire alla scuola una matrice umanistico-culturale e coltivare in essa il gusto e la curiosità conoscitivi. È importante farlo oggi, proprio mentre il disagio esistenziale dei giovani ha raggiunto punte mai viste in precedenza e la prospettiva scolastica si è ridotta a vaga promessa di un futuro cangiante.

Quali sono dunque i rischi del pedagogichese? Il principale è quello di una nebulosa scientista che offuschi i veri problemi della scuola. E sono rischi che portano con sé effetti collaterali esiziali (si tratta di fenomeni ai quali purtroppo assistiamo da tempo): la fucina della progettazione didattica è viepiù riservata a gruppi ristretti di “specialisti” (scienziati dell’educazione appunto), con evidente sacrificio della corresponsabilità riflessiva dell’insegnante (passato da “uomo di scuola e di cultura” a sostanziale esecutore didattico).

L’enfasi posta sulle forme didattiche ha parzialmente oscurato l’attenzione al senso e ai contenuti formativi (i quadri epistemologici sui quali si fonda la nostra cultura sono concettualmente ridotti a risorse per costruire competenze).

L’apporto fondamentale della cultura pedagogica è scaduto in un pedagogismo rarefatto, distante dai problemi vissuti quotidianamente nelle aule.

La riflessione critica sulla scuola e sulla relazione educativa ha imboccato la strada dell’omologazione e della standardizzazione.

 Articolo pubblicato da laRegione e proposto qui in versione più estesa
Nell’immagine: un diagramma tratto dal citato documento “La valutazione per competenze. Dalla teoria alla pratica”

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