«resto in te vivo, c’or mi vedi e piangi»

«resto in te vivo, c’or mi vedi e piangi»

Ricordando Anna Felder


Matteo Pedroni
Matteo Pedroni
«resto in te vivo, c’or mi vedi e...

Rimango solo, con i libri di Anna Felder allineati sulla scrivania in ordine cronologico, le edizioni originali sopra le ristampe e queste sopra le traduzioni: mi guardano per la prima volta così disposti, come se li abbia convocati per farmi ricordare qualcosa, per farmi dire qualcosa che in tanti anni di amicizia Anna non mi ha mai detto e non mi potrà più dire.

Forse è proprio questo ciò che oggi scopro da questi libri in rango, che Anna non mi ha mai detto di leggerli. Le faceva piacere che li stessi leggendo, che li facessi leggere ai miei studenti, che avessi fatto acquistare a mia madre Le Adelaidi, perché le leggesse per me, ma non capitò mai che Anna prendesse da queste conversazioni lo spunto per spingermi a leggere i suoi libri, per dichiararsi scrittrice. La sua discrezione non poneva però una distanza tra di noi, al contrario, essa favoriva in lei quella semplicità profonda che dall’apparenza del mondo portava con leggerezza ad assaporare un momento di vita. Se oggi mi capita di non rammentare più precisamente l’occasione dei nostri incontri – conferenze convegni commemorazioni cortei… –ricordo invece con nettezza la meraviglia di esserci insieme.

A ben guardare nei libri di Anna Felder si prova questo stesso senso di sospensione, che da una parte sembra staccarci dalla realtà, dall’altra invece ce la fa sentire nella sua essenza, grazie a un uso personalissimo della lingua e ad ambientazioni spiazzanti, sorprendenti. Si tratta per Anna Felder di segnare uno scarto rispetto all’interpretazione comune della vita e dei suoi valori, di cui – nel suo secondo romanzo, La disdetta (1974), accolto nei Gettoni einaudiani da Italo Calvino – si fa portavoce un gatto-narratore, a sua volta controfigura animale e letteraria dell’autrice:

Aprivo un occhio e avevo davanti una mela intera, mi bastava per riaddormentarmi, eravamo noi due soli, io e la mela, era giusto così. Chiudevo gli occhi e se li riaprivo era soltanto per scrupolo di coscienza, per dirmi «è proprio lei»: fa piacere talvolta mettersi alla prova, togliersi anche quel dubbio che non si aveva. Dopo si va avanti a occhi chiusi, è l’odore di mela che si sente da vicino […].

«Quel dubbio che non si aveva» spinge Anna Felder a una scrittura difficile, quella che scuote il lettore che si accontenterebbe di addormentarsi sicuro di avere davanti a sé quel mondo che, invece, Anna Felder mette in forse, costringendoci a una rinnovata attenzione, a vigilare, a interrogare i luoghi comuni, tanto rassicuranti quanto illusori. Nei suoi romanzi, nei suoi racconti, fino ai Venti frammenti (2013) e alle prose brevi di Liquida (2017), Anna Felder propone un punto di vista alternativo, a volte scomodo, l’unico possibile nella precarietà della nostra esistenza: la certezza del dubbio, lo stare in bilico, che ritroviamo nel brano che dà il titolo al primo romanzo, Tra dove piove e non piove (1972):

Ci faceva ridere che non potessimo fermarci, perché la melma si muoveva sotto i nostri piedi, ci succhiava le scarpe nel sentiero, e noi continuavamo a camminare cercando un sasso come un’isola che ci sostenesse, ci piovevano dagli alberi i goccioloni a farci strabuzzare gli occhi, camminavamo senza arrivare, ogni tanto saltavamo da un ciottolo all’altro, io sceglievo i ciottoli di Gino, e stavamo in bilico su un piede a misurare l’altro passo tra dove piove non piove.

Questo essere «in bilico» riguarda tanto la condizione esistenziale quanto linguistica e perciò culturale in cui vive e scrive Anna Felder la maggior parte della vita. Una realtà che s’imprime profondamente nella sua poetica, nella sua concezione letteraria dello spazio geografico, in continua tensione tra nord e sud (quanti suoi messaggi elettronici si concludono con un ritorno «al nord», ad Aarau, dunque), tra la lingua che le ha rivelato il mondo e la lingua che l’ha accolta oltre Gottardo, come studentessa e poi insegnante. Scrivere in italiano ad Aarau per Anna Felder significa «Far posto alle parole; far posto, nella lingua che da decenni vive attorno, alle parole di casa; far posto nella lingua svizzero tedesca e tedesca usata tutto il giorno, alla lingua in cui sono nata, la lingua italiana: che vuole spazio, vuole tempo nel continuo incalzare di altri suoni. A lei tengo riservata la pagina bianca già dentro di me: perché si dispieghi come un’isola sul tavolo, a specchiare il bene e il male della nostra esistenza filtrata nella lingua che porto dentro (L’italiano in cuffia, in Letteratura di lingua italiana in Svizzera, a c. di Jean-Jacques Marchand, 2003).

Questa lingua che cerca spazio, che impegna quotidianamente per la sua preservazione, è una lingua che si rafforza, che si raffina, che contiene in sé la coscienza della propria determinazione. Non è un caso che proprio nella lingua Anna Felder abbia trovato la sua cifra, la sua firma, che la rende riconoscibile tra i tanti scrittori che della lingua si sono serviti senza possederla, come uno strumento pronto all’uso, a tutti gli usi. Spento Calvino e chi come lui sapeva e poteva «presentare il […] racconto a Einaudi […] avvertendo però anche che non c’è da sperare che sia un libro che attiri il pubblico […], e anche tra i critici sarà notato solo da quelli di palato fino» (Lettera di Calvino nella ristampa Casagrande della Disdetta); spento Calvino non si spegne tuttavia la ricerca stilistica di Anna Felder che, nel 2007, con il romanzo Le Adelaidi giunge a soluzioni di rara efficacia espressiva.

Il «Gran Premio svizzero di letteratura» le viene assegnato nel 2018. Ai miei auguri, che le avevo inviato con WhatsApp da un vagone della Centovallina risponde con la solita gioiosa modestia: «Mi sono arrivati 100 echi di Matteo dalle 100 valli: cento e cento grazie! (e sono molto curiosa del libro appena uscito di Federico) [cioè i postumi Sette dormienti, ed. sottoscala, 2018]».

Sette anni prima, a ridosso della morte di Federico Hindermann, Anna mi aveva inviato per posta elettronica alcuni versi di Michelangelo, ai quali aggiungeva una glossa ironica, a sdrammatizzare un messaggio che precedeva di fatto la catastrofe: «Intanto ho trovato i versi di Michelangelo: Né son già morto; e ben c’albergo cangi, resto in te vivo, c’or mi vedi e piangi. Impossibile, addirittura beffardo – in ambienti (turistici) di qui – l’albergo/hotel da cambiare».

Questi versi, con cui Anna additava la sopravvivenza di Federico oltre la morte, valgano da ora per Anna, viva nella memoria dei cari e nella sua opera letteraria.

Matteo Pedroni è professore di Letteratura italiana all’Università di Losanna

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