A quell’uomo devo la vita

A quell’uomo devo la vita

Nei giorni della Memoria arriva in Ticino il film “One life” (con A. Hopkins) che racconta il salvataggio di quasi settecento bambini ebrei da parte di Nicholas Winton; la testimonianza di chi a lui deve la sua esistenza


Vera Snabl
Vera Snabl
A quell’uomo devo la vita

Io sono, vivo, esisto grazie a Nicholas Winton, che salvò dai nazisti 669 bambini, in stragrande maggioranza ebrei, trasportandoli da Praga a Londra. Fra quei bambini c’era anche mio padre Hanus, allora undicenne. 

Winton aveva meno di trent’anni, lavorava nella City di Londra, nel 1938 aveva organizzato una vacanza invernale in Svizzera quando un suo amico laburista gli chiese di raggiungerlo in Cecoslovacchia. Era urgente mettere in salvo migliaia di piccoli ebrei, rifugiati e accampati con le loro famiglie attorno a Praga,  dove erano arrivate dai Sudeti; ma anche di famiglie della borghesia praghese, come nel caso di Hanus. Nella capitale cecoslovacca il giovane broker inglese rimase tre settimane, fu colpito dalle condizioni di vita miserevoli di quegli improvvisati rifugi, soprattutto era convinto che Hitler (a cui gli Occidentali avevano concesso i Sudeti sperando di evitare la guerra) avrebbe invaso il paese. In quei venti giorni a Praga, grazie a un gruppo di collaboratori, fra cui Bill Barazetti (lo svizzero che da Praga collaborò con Nicholas Winton nel salvataggio dei 669 bambini, il cui nome figura in cima alla lista dei “Giusti” svizzeri al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme), Winton gettò le basi organizzative per i viaggi in treno che avrebbero trasferito decine di piccoli in pericolo.

Il film “One life”, ora proiettato anche in Ticino, racconta la storia di Nicky (così si faceva chiamare Winton) e dei bambini sottratti alla follia nazista. Interpretato con la nota bravura, e la grande capacità di coinvolgimento emotivo, da Anthony Hopkins (e per gli anni giovanili da Johnny Flynn).  “La storia straordinaria di un uomo ordinario”, come segnala il libro da cui il lungometraggio è tratto.

Per la prima volta incontrai Nicky al funerale di mio padre. Mentre mi congedavo definitivamente da lui, conoscevo l’uomo che l’aveva salvato negli anni dell’infanzia. Sapevo chi era, e cosa era riuscito a fare Winton, ma trovarmelo davanti, ricevere il suo abbraccio, ascoltare la sua voce calda e pacata, fu un’emozione impossibile da raccontare. Avevo di fronte la persona a cui in fondo dovevo praticamente tutto. 

Lo rividi due anni dopo, nel settembre 2009. Un “ragazzo” che aveva già compiuto cento anni. Eravamo alla Liverpool Street Station di Londra. Insieme ai suoi “figli” e ai suoi “nipoti” (“Winton’s children and grandchildren”, così veniamo chiamati noi in vita grazie a lui) aspettavamo l’arrivo di un treno commemorativo, quello dell’ultimo treno che settant’anni prima doveva partire da Praga con qualche centinaio di piccoli passeggeri e che invece venne bloccato dai tedeschi che nel frattempo e in pochi giorni avevano occupato tutta la Cecoslovacchia: le SS fecero scendere tutti i piccoli passeggeri. Fra loro c’era Franz, il fratello maggiore di mio padre: lui e i miei nonni Greta e Joseph vennero poi deportati al campo di transito  di Theresienstadt, e dopo qualche settimana verso Auschwitz. Nell’ordinatissimo elenco stilato dai nazisti trovai i tre nomi, la data d’arrivo e quella della partenza. Probabilmente, ci disse il direttore del museo del campo, tutti e tre uccisi durante il viaggio verso i lager polacchi, gasati nel camion su cui viaggiavano.

Ogni volta, Winton, che faceva tutto questo senza pretendere un centesimo, e continuando a lavorare come broker,  aveva atteso con impazienza alla Liverpool Street Station l’arrivo di ciascuno degli otto treni su cui i genitori disperati avevano potuto mettere i figli. Quei genitori, mi disse un giorno Hugo Marom, un amico di mio padre e a sua volta uno dei bambini salvati, erano i veri eroi della storia: pur di salvarli affidavano i loro piccoli a degli sconosciuti, non sapevano dove sarebbero finiti, chi se ne sarebbe occupato, né se li avrebbero mai rivisti. 

Al loro arrivo a Londra, Winton aveva già organizzato la distribuzione di quei piccoli spaventati, smarriti ma anche curiosi, che nel convoglio semi-sigillato e da cui non potevano scendere, avevano attraversato la Polonia e l’Olanda prima di arrivare nel Regno Unito; Winton che era stato costretto dal governo inglese a trovare famiglie disposte ad accoglierli in casa e a versare 50 sterline (parecchie all’epoca, e di solito accettavano famiglie della classe media). Ogni bambina e bambino col suo piccolo bagaglio, un cartellino di riconoscimento al collo, e su un grande registro le loro foto. Lui, Nicky, che una volta sistemati tutti quei 669 piccoli profughi non aveva più parlato per anni di questa vicenda con nessuno al di fuori della sua famiglia, Nemmeno i bambini seppero per diverso tempo chi li aveva fatti arrivare nel Regno Unito. Mentre per un certo periodo nel dopoguerra Winton continuò il suo impegno in favore dei rifugiati, lavorando anche per l’ONU.

Fino al 1988, quando il  famoso programma televisivo della BBC “That’s life” scoprì la storia, invitò Nicky in uno studio alla presenza di molti ospiti, raccontò quel che aveva fatto, mostrò le poche foto che documentavano la vicenda, e chiese se in studio ci fosse qualcuno che avesse a che fare con il salvataggio dei bambini, addirittura se fra il pubblico ci fossero degli ex bambini salvati: si alzarono tutti i presenti, tutti “Winton’s children”, e fra loro anche mio padre. Per la prima volta si vide un Nicky commosso, qualche lacrima, lui che aveva sempre ripetuto umilmente ai pochi informati che “semplicemente era una cosa che si poteva fare, che si doveva fare, e che è stata fatta”. Il che fece dire al Dalai Lama: “la sua opera umanitaria è un esempio che tutti dovremmo seguire”. Quella di evitare toni celebrativi, era del resto la promessa che strappò alla figlia Barbara quando decise di aiutarla per la stesura delle sue memorie: “Ha espresso il desiderio – sottolinea Barbara – che il libro evitasse di promuovere un culto acritico dell’eroe o il bisogno di una continua rivisitazione della storia, quanto, semmai, che potesse ispirare le persone a riconoscere che anche loro possono agire eticamente nel mondo e fare una differenza positiva per la vita degli altri, che si tratti di crisi internazionali o della propria comunità”.

La scena della BBC fu un momento televisivo estremamente toccante. Che è stato ricostruito nel film, con la partecipazione di decine di “Winton’s children” invitati a Londra. Anche io e mio fratello coi i nostri figli. Affascinati anche da un Anthony Hopkins estremamente amichevole, molto preso dalla vicenda di Winton, che non smetteva di ringraziare tutti noi che “ci eravamo scomodati per stare con lui sul set del film”. 

Ebbi un’ultima occasione di incontrare Nicky, ormai ultracentenario, in un tiepido pomeriggio, nel suo cottage, alla periferia di Londra, dove una signora gli metteva a posto l’abitazione soltanto tre giorni alla settimana.  Un perfetto padrone di casa, nel suo studio pile di quotidiani, perché come ci disse sorridendo “non sempre ho il tempo di leggerne 3 al giorno”, e poi raccoglitori con nomi di case per gli anziani, che lui aveva contribuito a fondare, impegno che gli era valso il titolo di Sir. In passato, quando usciva di casa per far visita agli anziani, salutava la moglie Grete avvertendola “vado a trovare i miei vecchietti”. Lui era novantenne, quasi tutti i suoi “vecchietti” erano più giovani, anche se lui ripeteva spesso di “averli trovati un po’ giù di morale”. Questo lo spirito che l’ha portato, efficiente e lucido, fino a 106 anni. 

Grazie Nicky. 

  • Il film “One Life” è in proiezione al Cinema Lux di Massagno, all’Otello di Ascona. al Forum di Bellinzona e al Teatro Mignon di Mendrisio

Nell’immagine: Nicholas Winton

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