Impossibile salvare il “soldato Joe”

Impossibile salvare il “soldato Joe”

Biden getta la spugna, il dilemma del partito democratico americano


Aldo Sofia
Aldo Sofia
Impossibile salvare il “soldato Joe”

Anche lui aveva invocato l’altissimo, affermando che soltanto il padreterno poteva dirgli se continuare o no. Ma non ce n’è stato bisogno. Il vuoto attorno a lui, il numero crescente di parlamentari e personalità democratiche che gli chiedevano di gettare la spugna, l’alto numero degli elettori dichiaratamente convinti che dovesse interrompere un’autentica via crucis politica, alla fine persino la decisione dell’alleato ucraino Zelensky di rivolgersi direttamente a Trump per anticipare il tentativo di un dialogo diretto: salvare il “soldato Joe”, sempre più spaesato affaticato, confuso e irritato dal ‘tradimento’ dei suoi, era diventato letteralmente impossibile. Fatto storico: il candidato che nelle primarie aveva già ottenuto la seconda investitura per rimanere al civico 1.600 di Pennsylvania Avenue di Washington rinuncia dunque a competere nuovamente contro Donald Trump. Proprio nel momento, oltretutto, in cui il tycoon conosce il miglior momento della sua corsa, scampato (sempre “per volere dell’altissimo”) all’attentato di Butler, santificato dai suoi supporter, in parte già provvisoriamente messo in salvo dalla Corte suprema per i vari processi relativi al suo mandato presidenziale. Duello impari, dicevano tutti i sondaggi a tre mesi dal voto. 

Nemmeno nell’ora dell’umanissima resa il rivale ha trovato una parola degna per il commiato, per l’onore delle armi, liquidandolo semplicemente come “il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti”. Affermazione contestabile. Tre anni di presidenza Biden hanno certo registrato momenti fallimentari, primo fra tutti il caotico ritiro dall’Afghanistan (accordo con i Talebani che era stato raggiunto da Trump), paese dunque riconsegnato nel peggiore dei modi agli ‘studenti coranici’ che sono tornati a sigillarlo in un regno del terrore jihadista, principali vittime le donne sottoposte alle regole della ‘sharìa”. Si disse che proprio quell’immagine del ferragosto 2021, di un’America in fuga da Kabul, avesse poi convinto Vladimir Putin a preparare con più determinazione l’invasione militare dell’Ucraina, convinto di poter conquistare in pochi giorni Kiev. Andò diversamente, e quella guerra sta comunque ancora mettendo alla prova la coerenza dell’intero dispositivo occidentale. Così come la tragedia del conflitto israelo-palestinese (l’attacco terroristico di Hamas, la spropositata rappresaglia di Tsahal con oltre 40 mila morti nella Gaza devastata) avrebbe dimostrato l’infruttuosa ambiguità di una politica americana che al tempo stesso sosteneva militarmente Israele chiedendo inutilmente al governo nazionalista di Netanyahu un approccio militarmente più saggio e umanitariamente meno devastante. È sul piano interno, comunque, che Biden ha dato il meglio. Soprattutto nell’ambito di una politica economica che ha investito una montagna di miliardi in aiuti pubblici per la ripresa economica, sussidi famigliari, rilancio delle infrastrutture, reindustrializzazione, lotta ai super-profitti delle multinazionali (minimum tax).

Ma non è ciò che più conta e pesa in queste drammatiche ore. Importa invece quale controffensiva deciderà il partito democratico per uscire dalla sua crisi: se scegliere il sostituto attraverso una cosiddetta “convenzione aperta” – mettendo in scena un confronto fra potenziali candidati che potrebbe trasformarsi in corrida – o se affidarsi a Kamala Harris, la vice-presidente subito indicata da Biden anche come sostituta candidata. Rimasta per anni nell’ombra, impopolare, poco amata nello stesso partito. Dilemma supplementare. Per i dem americani. E per la stessa America. 

Scritto per La Regione

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