«Attraverso granelli di parole»

«Attraverso granelli di parole»

Un ricordo di Anna Felder


Fabio Pusterla
Fabio Pusterla
«Attraverso granelli di parole»

Scompare con Anna Felder la grande signora della letteratura italiana in Svizzera. 

Dai suoi esordi, verso la fine degli anni ’60, Anna è sempre stata un punto di riferimento, tanto discreto nella sua postura intellettuale e umana quanto ineludibile nella sua cifra stilistica. La sua prosa, nitida, elegantissima e dissimulatamente sperimentale, si è via via affinata negli anni e nei decenni, senza mai venir meno alla sua vocazione originaria. Il primo romanzo, Tra dove piove e non piove, apparve nel 1972, per le edizione Pedrazzini; ma era già stato pubblicato, in versione tedesca, a puntate sulla «NZZ»: segnale di un’attitudine della scrittrice (e dell’insegnante: Anna ha lungamente lavorato presso il Liceo di Aarau, la città dove risiedeva, occupandosi intensamente anche dell’integrazione dei giovanissimi immigrati italiani) a muoversi agilmente tra nord e sud delle Alpi, sia nella vita privata che in quella professionale e intellettuale. 

Primo traduttore di Anna Felder, appunto per la «NZZ» fu Federico Hindermann, finissimo lettore e poeta di prima grandezza, con cui Anna intesse un sodalizio di grande intensità, umana, sentimentale e culturale. Le tematiche messe in campo in quella prima opera, che riguardano appunto l’emigrazione italiana in Svizzera vista attraverso gli occhi e le esperienze dei giovani scolari, erano forti e coraggiose: il libro usciva nella tristissima epoca delle iniziative Schwarzenbach (quasi un incunabolo dell’attuale clima politico) e affrontava di petto la situazione, sempre tuttavia restando fedele al celebre monito di Emily Dickinson: «Di’ tutta la verità, ma dilla obliqua». 

 Nel contempo, quel primo titolo suggeriva già quale sarebbe stato il territorio prediletto da Anna Felder nei suoi futuri lavori: quella zona esistenziale intermedia, sfuggente e affascinante, segnalata dal Tra, e colta sempre attraverso i personaggi più fragili e inermi, bambini, donne, anziani e persino animali, con una stupefacente capacità di penetrazione psicologica e un costante umorismo sottotraccia. Non a caso il suo romanzo successivo, La disdetta, forse il suo maggiore esito, piacque subito a Italo Calvino, che lo pubblicò nei Gettoni einaudiani nel 1974; notevolissimo il ritratto critico che Calvino fa di Anna Felder in una lettera: 

Mi pare che Lei sia una scrittrice con una personalità molto netta. Il suo modo di raccontare attraverso oggetti, quasi nature morte, o comunque organizzazioni visive dello spazio, o “messe in scena” di momenti della vita quotidiana è interessante e compiuto e richiama esperienze della poesia contemporanea (ho in mente soprattutto esempi anglosassoni) […] Ma soprattutto quello che per me dà il piacere della lettura, è il Suo humour sommesso e trattenuto e continuo.

 Ripensando in questi giorni ad Anna, sapendola gravemente malata, ho deciso di fare quello che si può fare in simili meste circostanze: rileggerla, riascoltare la sua voce e la sua lezione. Ma, trovandomi per certe disavventure fuori casa, ho cercato i suoi libri nella Biblioteca universitaria di Lugano. Avrei dovuto saperlo, ma me ne ero dimenticato: le copie dei romanzi e dei racconti di Anna Felder conservati in questa biblioteca provengono tutte dal lascito di Alice Vollenweider, la scrittrice, critica e traduttrice zurighese che forse si è spesa maggiormente per la diffusione della letteratura italiana e svizzero italiana Oltralpe, traducendola, recensendola, sostenendola in molti modi e in molte forme. 

Alice Vollenweider conosceva bene Anna Felder; e questa amichevole vicinanza è testimoniata dalle fitte annotazioni che costellano le pagine: commenti, spesso in tedesco, sottolineature, simboli. Così ho riletto Anna attraverso gli occhi di Alice, ed è stata una rilettura elevata a potenza, per così dire. Cosa sottolineava, cosa commentava la lettrice zurighese? Talvolta dei passaggi più impervi, forse già con la preoccupazione di doverli tradurre o di doverne rendere conto in un articolo; in altri casi singole parole; ma più spesso dei brani, sembra di intuire, di profonda bellezza, che la colpivano per l’eleganza della lingua e dello stile, per il fascino del ritmo. E ho immaginato, seguendo e cercando di interpretare le annotazioni di Alice, quante volte Anna avrà dovuto rispondere a domande di critici o giornalisti, che le chiedevano di cosa parlassero i suoi libri, quali fossero le tematiche a lei più care, e così via. 

Conoscendo la signorilità di Anna, posso quasi vederla e sentirla nell’atto di rispondere garbatamente a quelle domande insieme giuste e sbagliate; senza forse mai dire la cosa più bruciante e più profonda, che simili interrogativi impediscono di vedere: che per un vero scrittore, e Anna questo appunto era, i temi hanno una certa importanza, naturalmente, ma la cosa più importante è lo stile, il modo di raccontare e interpretare quei temi. E proprio questo, io credo, suggeriscono le sottolineature di Alice Vollenweider, che paiono soprattutto sottolineature ammirative. La prima di esse riguarda l’attacco del romanzo La disdetta, attacco straordinario e spiazzante che subito mette in scena un narratore, e un conseguente punto di vista narrativo, assolutamente anomali:

Mi prendevano per un gatto perché facevo bene la mia parte. Un altro era un chicco d’uva nera, o un vecchio, un merlo femmina. Io ero un gatto.

Poche pagine più avanti, ecco un frammento dell’esplorazione gattesca, di nuovo rilevato dalla penna di Alice:

La pendola faceva il rumore di sempre di fronte ai soprabiti appesi, agli ombrelli: c’era da perdersi a guardar dento: non che mi illudessi di fermare il meccanismo, era impossibile da dietro il vetro; ma a metterci il muso contro, lì tra il pendolo d’ottone e la chiavetta, in quelle oscillazioni del tempo, minuto per minuto, io vedevo scaturire l’essenza delle cose; vedevo l’anima di un gatto, non corpo o fiato ma una parvenza di peli e baffi scuri appena riconoscibile, il brillio di un’iride, mi scostavo e si scostava; ne usciva l’anima di un soprabito, non materia non stoffa ma il volto dell’immobilità, l’idea di un ombrello, c’era e non c’era, bastava un niente e svaniva

 Si capisce bene, leggendo simili passaggi, perché Calvino parlasse di poesia; e forse si può sentire, in sottofondo, la lunga frequentazione da parte di Anna Felder della poesia montaliana, cui aveva dedicato tanti anni prima la sua tesi dottorale (pubblicata con il titolo La maschera di Montale nel 1968); si sentono forse, dentro «l’essenza delle cose», certi versi de I Limoni (in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto»); si sente, soprattutto, il tentativo riuscitissimo di essere dentro  il fluire della lingua e della sintassi. Anna, infatti, non usava la lingua per raccontare, ma si serviva del racconto per scrivere, cioè per inventare soluzioni linguistiche e stilistiche capaci di colpire e di sorprendere il lettore e di condurre lei, l’autrice, sempre più addentro le cose, lungo la verticale del linguaggio letterario e poetico. 

Due altri passi, fra i tanti, che devono aver colpito Alice Vollenweider, si trovano in un’opera recente, una delle ultime scritte da Anna Felder, cioè il complesso romanzo Le Adelaidi del 2007: si tratta di due descrizioni paesaggistiche, che si richiamano l’un l’altra a distanza (la prima è all’inizio dell’opera, la seconda verso la fine), a suggerire, di nuovo, un ritmo, un’attenzione compositiva quasi più poetica che narrativa:

Basta infatti socchiudere gli occhi sui brividi accesi dalla corrente, per non più distinguere l’ammiccare sottile dei pesci, minuscoli, da quelli delle monetine di sassi. Sono le monete a scivolare o sono piuttosto i pesci?; le monete invece a frenarli? Sono le scaglie di metallo a rimbalzare in superficie, o sono viceversa i centesimi a rincorrersi testa e croce sul letto del fiume? Sassolini nel sepolcro. (…)

Dire che si scavalcano, le minime crespe d’acqua dolce ammiccanti sulla superficie del lago? Al di là del turchino, in lunghezza verso l’altra riva, la luce si disfa: dirla bianca?

Invece com’è trasparente l’acqua da questa parte fino a riva, liscia e color terra in trasparenza, da contare a uno a uno i sassi sul fondo. Color terra anche i pesci, grandi e piccoli in processione, guarda l’ombra che si portano in giro. Diresti ombra?

Entrambe le descrizioni nascono in realtà nella mente di Ottone, il protagonista maschile del romanzo, che è uno scrittore; uno scrittore che somiglia a «uno che parta, o che appena arrivi, intanto tace, in bilico sull’arrivo o sulla partenza, e di tutto si meravigli». Di nuovo un bilico, una faglia, una sospensione del tempo, provvisoria; e, insieme, il grande tema della meraviglia, che costantemente ha guidato anche lo sguardo e la penna di Anna Felder, nella sua esplorazione dei più minuti avvenimenti quotidiani, capaci però di accendersi improvvisamente, di schiudere un senso di vastità; quello che appare, per non fare che un esempio, in chiusa al racconto Le ombre sedute, compreso nella raccolta Nati complici del 1999:

La fiorista dando tempo al tempo non risponde né sì né no, lo accompagna alla porta e staccando un ramoscello di agrifoglio, cerca con lo sguardo i gabbiani verso il vuoto del lago, a già conoscere oltre il sonno dei battelli, i nubifragi a venire, le sirene del Nilo, il frutto del loto che dà l’oblio a chi lo mangia.

La storia continua.

Certo, «la storia continua», anche se l’autrice della storia, Anna Felder, adesso non c’è più; continua nelle sue pagine e nelle future letture che di quelle pagine saranno eseguite. A condizione, tuttavia, che i libri di questa bravissima scrittrice continuino a essere disponibili per i futuri lettori, e magari riuniti in un’edizione complessiva, che dia conto del vasto lavoro di Anna Felder, fatto di romanzi, racconti, radiodrammi e talvolta anche di testi poetici. Tutto le carte di Anna sono da tempo depositate presso l’Archivio svizzero di letteratura a Berna: e questo è senz’altro garanzia di conservazione e di valorizzazione, di ricognizione e di studio. Quanto all’auspicio di poco fa, relativo alla pubblicazione della sua opera finalmente riunita in uno o più volumi, c’è invece da temere che si tratti di un auspicio più ottativo che plausibile, più retorico che concreto: vista la scarsa attenzione che le istituzioni ufficiali della Svizzera italiana riservano ai migliori scrittori che hanno operato in questo territorio. Speriamo di sbagliarci, naturalmente; speriamo che le parole di uno dei protagonisti di un altro racconto di Anna, intitolato No grazie, siano troppo pessimistiche: 

Una vita ho impiegato per non ancora capire che cos’è la poesia. Potrei morire oggi e non so rispondere. I ragazzi quando erano bambini, loro sì, sono stati un momento una poesia; Marietta adesso è una poesia; ma dopo, sai dirmi dove va a finire tutto questo?

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