Impegno e poesia tra vita e sport

Impegno e poesia tra vita e sport

Pubblicata dalle Edizioni Ulivo di Balerna l’avventura umana e professionale di Libàno Zanolari, una delle voci più apprezzate del giornalismo svizzero-italiano


Michele Ferrario
Michele Ferrario
Impegno e poesia tra vita e sport

Segnalo anzitutto che l’autore di La vita, lo sport e il mondo è un collega di lunga data e un collaboratore regolare di naufraghi.ch per il quale ha scritto decine di pezzi. Due ottime ragioni per declinare l’invito a scriverne: se sottolineo i pregi di questa sua pubblicazione importante, che ha richiesto una decina d’anni, vi si potrebbe leggere qualche eccesso dovuto ai legami di cui sopra. Per fortuna, dissipando ogni sospetto, a questo volume, appena pubblicato dalle Edizioni Ulivo di Balerna, mette mano (già in àmbito di progettazione) anche Fabio Pusterla, che ne firma la prefazione sottolineando alcuni aspetti sorprendenti, su cui tornerò più avanti.

Siamo il frutto di numerose, intricate radici, fonte ognuna di linfa vitale” scrive Zanolari ringraziando quanti lo hanno aiutato lungo il cammino: accanto alla moglie Sonia, Jean-Jacques Marchand, Franco Lurà e Paolo Parachini.

Anch’io ho letto con gusto e, in parte, sorpresa il libro di Libàno, di cui non conoscevo – e tuttora certamente non conosco ancora – tutte le qualità. Quella che abbiamo in mano è, in fondo, un’originalissima autobiografia del suo autore, oggi settantasettenne. Grigionitaliano – di Zalende, frazione di Brusio – “più morto che vivo dato l’esiguo peso” al momento della nascita, salvato dall’allora direttore del Kinderspital di Zurigo, l’illustre pediatra poschiavino Guido Fanconi (1892-1979) – Libàno (ci metto l’accento per una corretta lettura) pian piano consolida il fisico, pratica attivamente in gioventù l’atletica e il calcio, frequenta la Commercio a Coira, scrive il miglior lavoro di diploma dei Grigioni (I giovani e il futuro dell’Europa), per il quale viene addirittura invitato a Bruxelles.

Insomma, già da giovane studente, di umili origini, si notano in lui due campi d’interesse che non lo hanno abbandonato sino ad oggi: lo sport, che – da giornalista, cronista e inviato – ha autorevolmente raccontato al pubblico radiotelevisivo per 36 anni, fino al 2008; gli aspetti sociali, culturali e politici non solo delle competizioni sportive, ma di tutti i luoghi e Paesi in cui si è recato per commentare – questo il suo palmarès – 10 Giochi olimpici estivi (partendo dall’edizione, nerissima, di Monaco, nel 1972 che, nelle intenzioni, doveva far dimenticare quella del 1936), 8 Olimpiadi invernali, oltre a infinite gare di atletica, calcio e sci. Durante quell’esordio in Baviera, il venticinquenne Zanolari sentì il bisogno, tra una gara e l’altra, di recarsi in visita al non lontano campo di concentramento di Dachau. Sui campi di gara assiste ai trionfi di Mark Spitz nel nuoto, Olga Korbut nella ginnastica, Valerj Borzov nei 100 e 200 metri e ad alcune sfide da piena Guerra fredda tra statunitensi e sovietici. Ricordi e sfide suggeriscono a Libàno immagini e similitudini prese direttamente dalla mitologia classica.

Il Libàno che ho conosciuto e – anche se piuttosto raramente (i cronisti sportivi lavorano la sera e sono quasi sempre in trasferta) frequentato in presa diretta al bar della TSI – è un individuo curioso, piacevole, che sa raccontare senza annoiare grazie (anche) a una voce particolarmente calda e gradevole che neanche dopo ore e ore di diretta dava segni di cedimento. Lo sport è per lui una delle espressioni che caratterizzano l’uomo e il mondo, quasi un archetipo in grado di coinvolgere platee miliardarie nei cinque Continenti, capace di muovere interessi giganteschi e di assumere dimensioni che vanno ben oltre l’aspetto agonistico. Con Libàno l’evento sportivo che veniva chiamato a commentare non era mai una bolla isolata, fine a sé stessa, ma sapientemente contestualizzato in una cornice che, nelle sue telecronache, descriveva con ricchezza di riferimenti e annotazioni. Occhio, dunque, al merito degli atleti e delle squadre, ma sempre collocando l’evento in una dimensione più vasta che, nei suoi reportages, diventava approfondimento e occasione di conoscenza, invitandoci a riflettere, a relativizzare, a non chiudere gli occhi sulle disparità.

Efficacemente, nella postfazione, Ennio Emanuele Galanga sottolinea come “i panni dell’inviato settoriale gli stavano stretti: il mondo non finiva fuori dallo stadio, e lui voleva conoscere anche le terre e le genti che ospitavano l’evento sportivo. Per cui, già preparato da letture specifiche, nei ritagli di tempo (quando c’erano) andava a parlare con i residenti, visitava i luoghi più significativi che non necessariamente erano i più turistici, pranzava o cenava nelle trattorie locali, ben sapendo che anche il cibo è cultura, e elemento integrante della cultura di un popolo. E senza dimenticare di comprendere al meglio la società, specie quando le diversità di ceto erano più marcate. Non per niente veniva da una famiglia che a lungo aveva fatto i conti con le ristrettezze”.

È il titolo stesso del suo libro a dirci la stessa cosa: la vita, lo sport e il mondo vanno considerati fianco a fianco, come elementi di un tutt’uno; sarebbe, anzi, far torto alla professione di giornalista e alle legittime aspettative del pubblico ignorare tutto quanto ruota attorno al fatto sportivo. La forte sensibilità sociale e sindacale di Zanolari (apprezzata da Eros Bellinelli e consolidata accanto a importanti figure di una RTSI in cui lavoravano Renato Soldini, Delta Geiler e Claudio Nembrini, da lui menzionate nel libro) è emersa ancora più chiaramente dopo il suo pensionamento, che lo vede pendolare tra il domicilio ticinese di Massagno e i campi aviti di Zalende.

Quello che ho letto con gusto è il percorso umano e giornalistico di un collega preparato e credibile, ma anche la storia paradigmatica di un valposchiavino che, pur quasi costretto a varcare il Bernina per studiare e poi ad “espatriare” per esercitare la propria vocazione, non ha mai perso, neppure per un secondo, il legame inscindibile con la terra dei suoi antenati, anzi con la terra in assoluto. Tra i capitoli più toccanti, Aspettando un segno dai poveri morti, ricordo dolente del padre, il David che, nella descrizione, assume fattezze quasi mitiche: caviglie da camoscio, un funambolo che riempiva di ciliegie un’enorme cavagna e che, la Vigilia di Natale, si arrampicava sugli alberi a lato della spaventosa gola del Saiento in cerca di vischio.

Insieme a Sonia, che si sarebbe rivelata, decenni più tardi, salvifica, Libàno ha viaggiato il mondo. Li unì don Willy Albisetti nella primavera del 1977: “Sonia farà la Comunione, io no, non mi sono confessato. Ma il prete mi mette l’ostia in bocca: che fare? Non mi resta che accettarla”.

Appena può, Libàno torna in Valposchiavo. La vita e la professione ne hanno fatto un cittadino del mondo ma, come altri suoi conterranei importanti (da Alberto Giacometti – al quale dedica un intero capitolo tra i più belli – a Grytzko Mascioni) abbina una dimensione quasi locale a una “globale” (glocal, si dice oggi) perché – sottolinea ancora Galanga – “ha visto che le vicende di ogni popolo sono attraversate dalle stesse speranze e dalle stesse tragedie, diverse eppure a loro modo uguali. Da qui la sofferenza per le ingiustizie storiche e/o attuali di cui gran parte delle popolazioni devono portare il peso. L’empatia si manifesta nella sincera partecipazione che, di frequente, sfiora o raggiunge l’immedesimazione. E sempre con lo sguardo amorevole verso il povero, il sofferente, l’oppresso”.

Nel racconto di Zanolari compaiono – a volte solo suggeriti, altre con maggiori particolari – alcuni protagonisti della vita pubblica, politica e artistica da lui incrociati o soltanto osservati da vicino. Manca, nel volume, un indice dei nomi e dei luoghi, che sarebbe stato lunghissimo, ma anche assai utile e in grado di comprovare, già a prima vista, la vastità di spunti, orizzonti e incontri che il destino, ma anche le capacità personali gli hanno riservato.

Mi si lasci spendere, prima di concludere, qualche parola sul valore strettamente letterario del libro, in cui abbondano riferimenti dotti ad autori e scuole che spaziano dall’antichità classica al Novecento. A poeti, soprattutto. Da Omero e Archiloco a Dante ad alcuni giganti del XX° secolo: Majakovski e la Cvetaeva, Antonio Machado e Federico García Lorca, Salvatore Quasimodo, ai quali tuttavia preferisce Ungaretti e Montale. E ai quali si aggiunge lo stesso Zanolari: egli inserisce infatti 52 suoi testi poetici, spesso scritti durante le lunghe trasferte professionali, che hanno non poco stupito (in positivo) durante la recente anteprima del libro tenutasi il 26 marzo a Massagno.

Vento che senza posa t’alzi, lugubre / il tuo pianto sospendi – dalle mura / lascia sgorgare il mio; dimmi / che non sale dall’Ade, / che è di questo mondo il tuo lamento (…)”, è datata Zalende, novembre 1987.

La vita, lo sport e il mondo – perni costitutivi del volume, in cui Libàno compare anche in copertina, ritratto a Parigi da un anonimo artista di strada – si compenetrano ancor più in un emozionante insieme, il cui capitolo conclusivo – Quell’attimo in cui fui morto – racconta, con la precisone del cronista e il garbato sense of humor che attraversa le oltre 300 pagine del libro, l’infarto che lo ha colpito alcuni anni or sono e le complicazioni che seguirono. Paragonati a un altro incidente, occorsogli molti anni prima, negli Stati Uniti, a bordo di una seggiovia improvvisamente fermatasi a mezz’aria, sospesa nel vuoto, tra cielo e terra, ultima corsa pomeridiana. Mi butto da un’altezza di una decina di metri o resto a bordo? Meglio spaccarmi le ossa o passare la notte nella minuscola cabina, a -20° C, rischiando di morire assiderato?

Il libro del laico Zanolari si chiude efficacemente e significativamente con un elenco di desideri rivolti “a Chi di dovere”: una lista – forse un po’ balzana, certo toccante e per nulla blasfema – di 8 attimi-suoni-persone che, dovesse trovarsi nuovamente in bilico, vorrebbe rivivere-rivedere, in un ultimo flash, “lasciando a Lui la scelta, più o meno punitiva a seconda dei meriti acquisiti tenendo conto, spero, non solo delle volte in cui ho girato la testa dall’altra parte, ma anche di quelli in cui mi sono speso rischiando del mio, subendo non poche randellate”.

Quell’elenco divertito, lieve e profondissimo, è il compendio, la sineddoche perfetta che dice quasi tutto del suo compilatore. Quell’elenco così tenero, affettuoso, generoso, altruista, pone al centro un bimbo, il piccolo Pedrito, adottato a distanza da Sonia e Libàno in Nicaragua, deceduto, nel 2002, a 5 anni soltanto. Commovente, è il punto 7 della lista. Forse non a caso, perché quello stesso numero 7 torna più volte, come un richiamo, come un mantra.

  • Il libro verrà presentato lunedì 27 maggio alle ore 18.15 alla Biblioteca Cantonale di Palazzo Morettini a Locarno

Nell’immagine: Libano Zanolari (a sinistra) con i colleghi Giuseppe Albertini, Tiziano Colotti, Sergio Ostinelli e Enrico Carpani

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