Dovuto a Meneghello

Dovuto a Meneghello

Un omaggio al grande scrittore italiano in occasione del centenario della nascita


Pietro De Marchi
Pietro De Marchi
Dovuto a Meneghello

Il primo incontro con il nome e con i libri di Luigi Meneghello me lo ricordo benissimo, perché fu qualcosa come un colpo di fulmine. Era il 30 agosto del 1983 e sulla terza pagina del “Corriere della Sera” c’era un articolo-intervista di Giulio Nascimbeni a Meneghello. Possibile che non avessi mai sentito parlare di un tale scrittore? Possibilissimo. Corsi alla Rizzoli, in Galleria, e cercai i suoi libri, quelli usciti fino a quel momento: Libera nos a malo (1963), I piccoli maestri (1964), Pomo pero (1974), Fiori italiani (1976). Erano lì tutti e quattro, su uno scaffale, come se aspettassero me dalla metà degli anni Settanta, quando erano stati ristampati o pubblicati per la prima volta nella collana “La Scala” di Rizzoli. Da allora non ho più smesso di leggere e rileggere i libri di Meneghello, tutti, senza eccezioni, prima quelli già citati e poi via via gli altri, usciti a partire dal 1987: Jura, Bau-sète!, La materia di Reading, Maredè, maredè…, Il dispatrio,  Promemoria, Le Carte, I trapianti, Quaggiù nella biosfera, fino al postumo L’apprendistato. Nuove Carte 2004-2007.

Meneghello – lo ha detto per tutti uno dei più discreti tra i suoi aficionados, Gigi Corazzol – non è solo l’autore di alcuni libri che ci piacciono molto, ma qualcosa di più essenziale; è una figura di riferimento morale oltre che letterario, perché la relazione che abbiamo con i suoi libri, e con l’immagine che dell’autore i suoi libri trasmettono, ha a che fare con ciò che noi siamo o ci sforziamo di essere, e anche con ciò che non vogliamo e non vogliamo essere. Abbiamo imparato ad esempio, o forse, dovremmo dire più modestamente, possiamo sempre imparare da Meneghello a schivare l’enfasi, la prosopopea, la presunzione, quell’autocompiacimento in cui si può scivolare o cadere più facilmente che non nel luamàro del capitolo 13 di Libera nos a malo; possiamo imparare ad aborrire quella che Meneghello chiamava la boria dei bonzi, l’oscurità artificiale e non necessaria, che serve a mascherare la povertà dei pensieri; a cui è giusto contrapporre l’understatement, l’umorismo, l’allegria, il riso, il divertimento.

Meneghello ci ha mostrato in tutti i suoi libri che scrivere è una funzione del capire e che in ogni frammento dell’esperienza, a saperlo esprimere, è contenuto qualcosa di prezioso che lo trascende. Questo vale in modo speciale per le “materie” che hanno occupato la gran fiumana dello scrivere di Meneghello. Così Malo è un microcosmo, un paese di provincia che può essere studiato con gli strumenti della dialettologia e della sociologia; ma Malo è al tempo stesso la quintessenza dell’Italia, perché conoscere un paese dall’interno e a fondo vuol dire conoscere ciò che siamo stati e ciò che siamo: quanto contano il dialetto e la lingua, qual è il peso della storia antica e recente, qual è il ruolo degli istituti scolastici, della religione, qual è la loro influenza sulla vita di tutti. 

Così, ancora, raccontare le vicende di una banda di studenti-partigianianti conformisti, i “piccoli maestri”, significa contribuire a far comprendere che cosa è stata davvero la guerra civile e la Resistenza nel Veneto e anche altrove, ma contemporaneamente serve a far scoprire la povertà dell’Italia di allora, anche in zone poi raggiunte o travolte dal benessere e troppo presto dimentiche di ciò si era anche solo l’altro ieri. Comunicare l’esperienza dell’incontro con il mondo inglese, l’impatto in età adulta con quella lingua e quella cultura, come capitò al venticinquenne Meneghello quando si trasferì in Inghilterra, all’Università di Reading, vuol dire insegnare a guardare le cose anche con gli occhi degli altri, da un’altra prospettiva; e allora si potrà fare la spola tra l’uno e l’altro mondo, far funzionare la corrente alternata tra qui e là, parlare ad esempio di libri inglesi sulla rivista “Comunità” e tradurre e presentare la poesia di Montale per un programma della BBC.

Meneghello ci ha insegnato che in ogni cosa, anche nelle cose dell’arte, dobbiamo imparare a distinguere ciò che è genuino da ciò che invece è spurio, non autentico. Ci ha indicato che nello scrivere si debbono seguire strade poco battute; che si possono mescolare le lingue, trasportare le parole dal dialetto alla lingua, o da una lingua all’altra; si possono confondere a piacimento i generi; si può giocare liberamente con vari schemi narrativi, l’autobiografia e il saggio, la filologia e l’antropologia; si possono alternare i registri, l’alto e il basso, il serio e l’umoristico.

Ancora: Meneghello ci ha insegnato con i suoi libri, e penso soprattutto a Libera nos a malo e a Pomo pero ma anche al Dispatrio, che la vita di tutti, anche delle persone più umili, delle zie più scalcagnate, è una materia, una creta degna di essere lavorata letterariamente, con la stessa cura che si riserva agli argomenti ritenuti più importanti; e allora si può accostare senza stridore la mitologica Leda del poeta irlandese Yeats e la schioppa del Silvestri factotum nelle filande di Malo; si può trasformare il vecchietto del ricovero di Schio, venditore di lunari al mercato di Malo, in un personaggio memorabile quanto il venditore di almanacchi delle Operette morali di Leopardi; si può parlare di D’Annunzio e del suo autista che lo aspettava lì, che poi era il padre Cleto; si può immaginare che al Cimitero Monumentale si incontrino mia nonna Maria e l’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda.

Per chi, oltre a leggere, prova a scrivere, narrativa o saggistica, i libri di Meneghello costituiscono un esempio, certamente inimitabile, ma comunque sempre in vista: di un modo di scrivere antiaccademico, non aulico, non pomposo, non paludato, in cui la chiarezza, unita all’eleganza, è indubitabilmente un pregio; un modo di scrivere raffinato e al tempo stesso affabile, uno scrivere come parlando, la forma più democratica di scrittura.

Meneghello ci ha ricordato che in realtà l’apprendistato di chi scrive non finisce mai, che il lavoro di rifare la vita con le parole è inesauribile, che il viaggio testuale è lungo e non privo di insidie, di correzioni di rotta, di pentimenti, ma che si può e si deve insistere, anche a costo di rifare, non disperando di poter giungere un giorno in porto, all’approdo dove forse ci attendono belle e sagge donne e gli amici di sempre e dove forse qualcuno, di noi migliore, ci dirà “Va bene, basta così”.

Ma per tornare alle cose più importanti, quelle che riguardano tutti e non solo coloro che provano a scrivere, ecco che Meneghello ci ha insegnato che si può decidere di partire, lasciando il comodo ramo su cui eravamo appollaiati e attraversare le Alpi e la Manica; ci ha dimostrato che andarsene per un po’ altrove può essere un’azione civile o addirittura patriottica, come lo era stato prima salire in montagna, sull’Altipiano di Asiago; e che da quell’altrove si possono mandare agli amici e a chi ci vuole ascoltare ragguagli su un mondo più moderno, meno arretrato, ma poi si può anche tornare a fare bau-sète! durante le estati o gli inverni, e sentirsi di nuovo a casa.

In una pagina commovente, ma come sempre di una commozione tenuta a bada, trattenuta dai fermagli dello stile, Meneghello ci ha insegnato a pensare al dispatrio finale, a quando non ci saremo, e il mondo invece continuerà ad esserci, indifferente alla nostra assenza: 

“Sogguardando da una finestrella, vedo le finestre socchiuse della casa di fronte, i balconi con piante e fiori, qualche tranquillo segno di vita… Questa scena resterà così, tale e quale, il giorno dopo che avrò smesso di esserci io. La mia mancanza non inciderà su niente, il mondo qui e dappertutto sarà quello di sempre, intensamente indifferente al fatto che io ci sia o non ci sia. Mi colpisce l’idea che è una prospettiva vicina, e (strane bestie!) la cosa mi pare rasserenante.” (L’apprendistato. Nuove Carte, 17 dicembre 2006).

Oggi Luigi Meneghello è il grande scrittore che ammiriamo e di cui in vario modo, con convegni e ristampe, stiamo festeggiando il centenario della nascita. Ma è anche qualcosa di più. Parafrasando quello che Jorge Luis Borges scrisse di Stevenson, molti di noi potrebbero dire che Meneghello è uno dei grandi amici che la letteratura ci ha dato. E gli amici che ci ha dato la letteratura, lo sappiamo bene, restano con noi anche se sono nati cent’anni fa e da quindici anni non sono più sotto gli sguardi della luna.

Il testo qui pubblicato è la versione abbreviata del discorso tenuto dall’autore a Malo (Vicenza) il 2 aprile 2022 all’inaugurazione del Centenario della nascita di Luigi Meneghello

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