Black workers matter

Black workers matter

Pubblicato in italiano il libro che ha più indagato sul radicalismo afroamericano


Francesca Coin
Francesca Coin
Black workers matter

Era l’estate del 2020 quando 26 milioni di persone sono scese in piazza negli Stati uniti per protestare contro la morte di George Floyd, uomo di 46 anni ucciso da un agente di polizia bianco a Minneapolis. In quei mesi, il movimento Black Lives Matter costringeva il dibattito internazionale a interrogare la storia coloniale, mentre chiedeva di abolire la polizia e di spostare le risorse dal sistema carcerario all’istruzione e alla sanità. La pubblicazione in italiano di Black Marxism, il testo seminale dello studioso Cedric J. Robinson, si colloca nel solco di questa ribellione e offre una cassetta degli attrezzi indispensabile per decostruire la matrice razzista della nostra società.


Pubblicato per la prima volta nel 1983, Black Marxism è stato ignorato per quasi trent’anni, per poi imporsi nel dibattito internazionale come uno dei testi di riferimento della tradizione radicale nera. Dobbiamo parte della sua fortuna a Robin D. G. Kelley, docente all’Università della California a Los Angeles, amico e allievo di Cedric J. Robinson oltre che brillante autore di importanti bestseller sulla storia del pensiero nero, purtroppo in buona parte non ancora tradotti in italiano. È stato Robin D. G. Kelley a insistere perché Black Marxism venisse ripubblicato nel 2020, in corrispondenza con il nuovo ciclo di lotte di Black Lives Matter. “Questo libro mi ha cambiato la vita”, scrive nell’introduzione inglese al testo. “Come uno spettro, mi ha perseguitato dal giorno in cui l’ho tirato fuori dalla sua busta, più di sedici anni fa, fino al momento in cui ho accettato di scrivere questa prefazione”. Kelley racconta come l’incontro con quest’opera lo colse di sorpresa, perché nessuno gliene aveva parlato. Robinson già allora insegnava nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di California a Santa Barbara. Il suo lavoro, tuttavia, era così ampio nella sua struttura, e così radicale nelle sue tesi che la comunità accademica lo aveva a lungo tenuto ai margini. Per queste stesse ragioni, Kelley pone al centro della sua riflessione l’opera di Robinson, che da quel momento in poi acquisirà un ruolo sempre più centrale nel dibattito internazionale. 

Opera seminale nei Black Studies, quel campo interdisciplinare che si concentra sullo studio della storia, della cultura e della politica dei popoli della diaspora africana, Black Marxism nasce da una lotta per la libertà, ponendo al centro della filosofia politica il ruolo che il colonialismo e la schiavitù hanno avuto nell’emergere dell’epoca moderna. In questo senso, è un libro sulla rivolta nera e sulle modalità con cui essa sfida il “capitalismo razziale”, termine con cui Robinson indicava il ruolo del razzismo nel fungere da matrice dello sviluppo del capitalismo. In questo quadro, Black Marxism compie una serie di operazioni fondamentali. In primo luogo, rimprovera a Marx ed Engels di aver sottovalutato la forza materiale del razzismo e di aver confuso la classe operaia inglese con i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo. Per Robinson, il proletariato universale che Marx auspicava non è mai esistito. Persino all’interno della classe operaia inglese, infatti, c’era una gerarchia che poneva al vertice l’operaio autoctono e all’ultimo posto l’immigrato irlandese, una divisione che ha segnato lo sviluppo del capitalismo sin dalle sue origini. Robinson non si limita a studiare l’epoca moderna ma torna nell’Europa feudale, dove lo schiavo era, la maggior parte delle volte, una donna di origini slave. Per quanto l’immaginario collettivo ancora identifichi lo schiavismo con il processo che ha sradicato dal continente africano milioni di abitanti, Robinson ci riporta in un’epoca a questo antecedente, per ricordare come già nel tredicesimo secolo la borghesia e le famiglie ricche di Catalogna e Italia si servissero di servitori “tartari, greci, armeni, russi, bulgari, turchi, circassi, slavi, cretesi, arabi, africani (mori) e più raramente cinesi – due terzi dei quali erano donne”. Il razzismo, in quest’ottica, non è una mera questione fenotipica, che origina dal colore della pelle. È il dispositivo di cui la borghesia europea si è servita, dall’epoca feudale in poi, per “differenziare, non omogeneizzare”, la classe lavoratrice, esasperandone “le differenze regionali, subculturali e dialettiche” sino a trasformarle “in differenze di tipo «razziale»”. In questo contesto, il proposito di Black Marxism non è confutare o avvalorare la lunga produzione marxiana, spiega Miguel Mellino nella sua bella introduzione. È dialogare con il marxismo per comprendere come la storia abbia potuto ripetersi tante volte, disumanizzando le comunità che minacciavano di sovvertire l’ordine sociale e imporre forme di oppressione sempre più feroci.  Black Marxism spazia nelle epoche e nelle discipline, interroga la storia e la tradizione radicale nera, da W. E. B. Du Bois a C. L. R. James, per mostrare come la capacità di creare gerarchie sia sempre stato il segreto del capitalismo. È anche per questo che la pubblicazione di questo testo in Italia ė una buona notizia. Oggi come ieri, il razzismo la misoginia l’omofobia non sono mere questioni identitarie liquidabili con una smorfia o con l’evocazione del politically correct. Sono le forze materiali su cui poggia la riproduzione di una società diseguale. Capire come queste riescano ad attecchire così efficacemente in Italia è la questione urgente a cui non ci resta che rispondere.

Scritto per La Repubblica

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