Alberto Nessi – Il vento di Giorgio Orelli
Un più discreto amore per la vita - A cento anni dalla nascita, parole e versi di Giorgio Orelli nel ricordo di scrittori e amici
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Un più discreto amore per la vita - A cento anni dalla nascita, parole e versi di Giorgio Orelli nel ricordo di scrittori e amici
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Un più discreto amore per la vita - A cento anni dalla nascita, parole e versi di Giorgio Orelli nel ricordo di scrittori e amici
Tirava un forte vento quei giorni di luglio sull’isola di Karpathos, quando me ne stavo all’ombra scarsa di un arbusto da spiaggia a rileggere i racconti di Giorgio Orelli; così che, per non abbandonare alle folate il mio volumetto dalla copertina carta da zucchero -copertina già mezzo staccata, pagine come ali pazze di gioia pronte a svolazzare sulle onde del mare e ad abbandonarmi accanto a un giglio bianco fiorito sulla sabbia- decisi di ritirarmi nella pensione; abitata, il pomeriggio, da un omino silenzioso che mi avrebbe lasciato in pace in un angolo a sognare sulle pagine di “Un giorno della vita”, apparso da Lerici nel 1960, quando io avevo vent’anni e credevo forte nella poesia: avevo acquistato quel libro per poche lire nella più ricca Remainders di Milano, in Galleria, poco oltre il Camparino.
Dunque erano proprio ventosi quei giorni, ora già così lontani: ricordate la canzone della “… notte che pioveva/e che tirava un forte vento” (un po’ come quella del “filino d’erba…” che tanto piaceva a Giorgio, credo che la cantasse in gioventù strimpellandola sulla chitarra)? La si cantava alle feste campestri, un po’ ebbri. Perché quei giorni estivi, l’aria salmastra dell’isola greca mi portava echi dei miei colli. E io, in quel libro dalla copertina azzurra, leggevo della “betulla che sembrava non osasse appoggiarsi contro un nero masso liscio”, dunque una betulla un po’ timida. E, dopo poche righe, arrivavano i “fienaiuoli bergamaschi” – li ritroviamo in una poesia de “L’ora del tempo” che mi piace da matti; e poi s’arrampica la martora dalla “gola color d’arancia” presente anche in una famosa poesia, che anche lei mi piace da matti perché si muove proprio come una martora; e poi Ampelio “ebbe quasi pietà di sé, mentre gli tornava in mente una gazza a cui aveva sparato così da vicino che n’era rimasto poco più del becco”: la pietà di sé salta fuori in un’altra poesia ancora….
Una ciliegia tira l’altra, il vento non cessa nei pomeriggi passati in compagnia di Giorgio Orelli. E il vento mi fece scrivere questo omaggio poetico, un po’ orelliano:
Mentre la buganvillea scuote il suo ciuffo rosa
sopra ulivi bilingui nel balbettio delle foglie
e gigli bianchi figli della sabbia,
io qui scarpante leggo d’altre piante
più miti, meno disperate nel vento:
la betulla che non osa appoggiarsi alle rocce
il larice orlato di luce. E penso: ai miei paesi
ora è tempo di andar per more, le più belle
scaldate dal sole si staccano senza fatica
a settembre nel chiaroscuro dei declivi
che generano tenere ombre.
Dallo studio del pittore che gli faceva il ritratto, Ampelio, il capo voltato verso l’ampia finestra, scorse una betulla che sembrava non osasse appoggiarsi contro un nero masso liscio.
Mentre tutto era quieto nel bosco, gli parve che l’esile pianta fremesse. Al pittore non disse nulla, non tanto per il timore di distrarlo quanto perché la pensò cosa da custodire in segreto.
L’indomani si recò nel bosco. Aveva in mente la betulla, né giovane né vecchia, ma con rammarico, quando credette d’averla ritrovata, dubitò che non fosse quella.
“Strano” si ripeteva, sdraiato sul dorso d’una roccia.
L’erba sembrava ancora umida di neve. Pensò di spogliarsi, desideroso di sentire sulle proprie membra il sole, ma si accontentò di togliersi la camicia e di rimboccare i calzoni.
Sollevato da piccoli fremiti di benessere, si batté il petto con tutt’e due le mani, vigorosamente: una eguale dolcezza, pensò, devono provare anche gli alberi.
Credette, quando si assopì, di aver udito cantare il cuccù, come soleva, con quel suo grido concavo e sempre solitario.
Non aveva mai visto il cuccù., Ragazzino, in certi vuoti della giornata, quando non andava sui trampoli qua e là, prendeva uno schioppetto ad aria compressa e si perdeva dietro agli uccellini con una passione che pareva eccessiva anche ai fratelli; e sempre qualcuno gli diceva: “Sei un barbaro”, tanto che una notte aveva sognato d’aver trafitto con un coltellaccio due merli, e, ingoiatili, d’essersi torto dal mal di ventre fino a dover gridare ai fratelli che l’aiutassero; e loro a sgangherarsi invece dalle risa e a dirgli sul muso: “Sei un barbaro! Ti sta bene!”
Ma il cuccù l’aveva solo sentito cantare, se l’era sempre immaginato nero, più grosso d’un merlo, e dopo ch’ebbe ottenuto un flobert in piena regola, aveva pensato che, se fosse riuscito ad acchiapparlo, l’avrebbe fatto imbalsamare per tenerselo sul comodino. Il pensiero dell’imbalsamazione era poi diventato così assiduo da costringerlo a discorrerne quasi ogni giorno, specie di maggio, quando dal bosco tornava a giungergli quel grido. E giusto una sera di maggio era stato umiliato da Mario e Guido, suoi fratelli. Mario, che aveva imparato prima di lui, dai fienaiuoli bergamaschi, a imitare il cuccù, s’era nascosto dietro la casa dell’Agostino, che dà sui prati, e mandato Guido a chiamarlo (“Corri, Ampelio, giù sotto la casa dell’Agostino c’è un uccello grosso che canta, un cuccù. Non scappa, forse è ferito”), s’era messo a cantare nel migliore dei modi. Lui col flobert s’era precipitato fuori; poi, tutto prudente, seguito a distanza da Guido che doveva star male dal non ridere, s’era avvicinato al muro della casa, era andato avanti col flobert spianato fino all’angolo: “Ah ah ah!” Per poco non aveva sparato nella pancia del fratello che crepava dalle risa.
Ora il sonno lo conduceva nel folto: per fosse e vallatelle errava, quasi impaziente, scivolava lungo le rocce lustre o a forma di sedia, cercando di raggiungere l’uccello; e intanto una lepre saltava fuori dal suo tiepido rifugio, e forse era d’una volpe il corpo flessuoso insinuatosi rapido in una piccola grotta. O d’una martora? L’unica da lui veduta era stata uccisa da un vecchio cacciatore mentre fuggiva su un pino; ne ricordava soprattutto la gola, color d’arancia.
“Ecco, canta” disse con risentimento. Era convinto d’essergli a due passi, ma non riusciva a intravederlo.
Vide luccicare contro il cielo una ragnatela. Udì grattare la corteccia d’un albero. Si mise in ascolto, ma non sentì più nulla.
Sapeva, in un valloncello poco discosto, un torrente. Vi s’avviò, si chinò all’acqua, bevve, si bagnò il viso e le braccia; ma la pietra su cui poggiava i piedi cedette, con essa sdrucciolò nel torrente. Tornato di corsa a un prato, si spogliò sino a restare nudo, e poneva gli indumenti sui rami d’un abete, quando gli cadde sul capo una grossa pigna. Levò lo sguardo: uno scoiattolo lo osservava, agitando la coda con fare quasi scherzoso. Ampelio raccolse un sasso e glie lo lanciò.. Lo scoiattolo si volse, balzò su un altro ramo, scese lungo il tronco e ad Ampelio parve di sentirlo squittire sul proprio corpo. Si rivestì in fretta e per un pezzo scagliò sassi tra gli alberi sperando di riscovarlo: nella quiete perfetta certe palle rossicce continuavano, ingannevoli, a moltiplicarsi.
Più solo che mai, ebbe quasi pietà di sé, mentre gli tornava in mente una gazza a cui aveva sparato così da vicino che n’era rimasto poco più del becco, un becco che adesso cresceva come una spada e lo pungeva nella schiena, facendolo andare di furia giù per le balze; ed ecco si mette a piovere e da un nocciuolo già lucido grondante vien fuori un compagno con uno scoiattolo tra mano e gli dice: “Non ü morto del tutto, Ampelio, cosa dobbiamo fare?” e porgendogli il fucile: “Lo metto là su quel sasso e tu gli spari, non voglio vederlo soffrire”.
Lo frastornò con un grido vicinissimo il cuccù. Tornò col desiderio al fucile appeso a una parete della sua stanza, ma si ricordò d’aver ucciso anche un picchio verde, ch’ebbe poi vergogna di mostrare al padre: “Lo so, a che serve uccidere un cuccù? Bisognerebbe ucciderlo, ma non risolverebbe nulla. Oh, se si potesse colpirlo e raccoglierlo illeso. Restituito poi alla libertà, si comporterebbe in modo ben diverso”.
“Canta, canta” diceva e s’accorse d’essere sull’orlo d’un burrone. Laggiù la valle era stretta, il fiume e i binari del treno luccicavano a tratti. Qualche gallo cantava.
Di fronte alle pendici nette della montagna, era bello immaginare tutta una caccia: cani concordi come canne d’organo, e la silenziosa fuggitiva, che poteva non essere una lepre… No, di là nessuno lo chiamava, il grido che arrivava non era un nome, non c’era quell’aria fedele in cui due possono chiamarsi da un versante a un altro e allacciare i propri nomi.
Riconobbe poi, non senza trasalire, la pietra su cui s’era seduto con una ragazza sporca di mirtilli, alla quale non aveva saputo dir nulla, salvo, afferrandosi a un arbusto e facendo l’atto di calarsi nel burrone, che si sarebbe lasciato andar giù se lei voleva. E poco più in là, quel verde, quel pannetto di muschio tenerissimo, incastonato nella terra sparsa d’aghi: com’era dolce la ragazza che continuava a passarvi la mano e ogni tanto alzava gli occhi ma subito li riabbassava dicendo: “Che cielo, Ampelio, non vedi che cielo”. Certo, non un cielo qualunque, con tutte quelle nuvole incendiate; ma c’era da rabbrividire al pensiero che quello era un sito prediletto dalle vipere e in quel giorno non se n’era ricordato.
“Adesso mi son fatto più buono” disse forte.
Accostò le mani alla bocca, così da poter imitare, soffiando, il grido del cuccù: finalmente gli riusciva bene.
Un improvviso rumore lo trattenne in attesa. Dal suo cespuglio vide un uomo sconosciuto che stava rapito in ascolto. Teneva in mano un cannocchiale e aveva i calzoni rimboccati.
Ampelio provocò inavvertitamente un fruscìo, ma l’uomo non s’accorse di lui. Rifece il verso del cuccù: perfetto. L’altro ascoltava beato. “Aspetta che ti faccio il francolino”: Ampelio tirò fuori un suforello e cominciò a imitare il canto del francolino. L’altro, dopo aver detto: “È meraviglioso. E io che temevo di non trovar nulla”, si sedette.
Se non avesse pensato di esagerare, e che la collina dov’erano non era l’altezza giusta, Ampelio si sarebbe messo a imitare anche il canto delle pernici, fitto, metallico, picchiando rapido una moneta contro un’altra più grande. Tornò un attimo cuccù, poi disse, come a una vecchia conoscenza: “Buon giorno”.
Liberandosi da un groviglio di fili della Vergine, l’altro rispose con un sorriso lieto e comprensibile: “Buon giorno”.
Ampelio riaprì gli occhi e vide, non lontana, l’esile betulla. Stava ancora nell’incerta positura, come fosse per cadere contro lo scuro masso. Presto, anche il masso e la betulla furono investiti dal sole. Sembrò allora ad Ampelio che la bianca pianta si raddrizzasse senza sforzo nella luce del mattino primaverile, quasi per rivolgere alcune parole al vicino che deponeva la sua aria cupa.
Foto Giorgio Orelli © RSI
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