La prima impressione incide sempre, giusta o sbagliata che sia. Alla Fabbrica del Vapore, uno spazio del Comune di Milano destinato alla cultura, per la mostra «Guido Harari – Incontri 50 anni di fotografie e racconti», il benvenuto arriva da una gigantografia rappresentante i 3 mostri sacri milanesi che di più non ce n’è: il primo e unico cantattore, quello che ha portato la canzone a teatro (Giorgio Gaber), il medico cantautore che Paolo Conte (!) amava chiamare «Il genio» (Enzo Jannacci) e, infine ma non da ultimo, il Premio Nobel italiano più sorprendente (Dario Fo). Raggianti, braccia aperte (più «ben venuti» di così…) e in bianco e nero. Eh sì, perché le storie raccontate dalla mostra, arrivano da lontano.
Prima però, almeno per i lettori più giovani, diciamo chi è Guido Harari.
Nato al Cairo nel 1952 fin da adolescente ha bazzicato il mondo della canzone italiana. Inutile aggiungere che la sua curiosità iniziale si è subito trasformata in bravura e fin dai tempi delle fanzines «Ciao 2001» (fondata nel 1968, diciamolo), «Giovani» e «Rockstar» quella di Harari è subito diventata una firma. Critico musicale e fotografo.
Riconosciuto e bravo per almeno tre motivi: il suo essere regolarmente sul pezzo, la sua sensibilità (l’occhio del fotografo che è sempre diverso da quello comune) e la sua onestà. Tant’è che molte conoscenze si sono trasformate in amicizia. E lui, in pratica, in quell’ambito ha conosciuto tutti. Venendo anche ricercato, in Italia ma non solo. Tant’è che nel corso degli anni ha abbandonato la critica scritta lasciando parlare le sue immagini, scelte se non commissionate anche per parecchie copertine di album, o 33 giri. Così è andata per quello che potremmo definire come protagonista assoluto della canzone senza aver mai cantato n’è scritto un verso o rigo.
Torniamo alla mostra milanese: è impressionante la collezione di ritratti esposti. I cantanti in pratica ci sono tutti. Dai padri della canzone d’autore (Gino Paoli, Fabrizio De André, Bruno Lauzi), le stelle di questo movimento (Paolo Conte, Vasco Rossi, Francesco Guccini, Ivano Fossati) le star internazionali (Bob Dylan, il «Boss», BB King, Lou Reed, Sinéad O’Connor). Poi, cambiando ambito, ecco i registi-Oscar (Bernardo Bertolucci, Roberto Benigni) i miti veri (Gino Strada), i poeti (Alda Merini, Attilio Bertolucci), attori (Nanni Moretti, Marcello Mastroianni).
In poche parole c’è il mondo.
Certo, qualcuno potrà anche obiettare (l’abbiamo sentito dire in «presa diretta») che il fotografo ha avuto una gran fortuna ad «esserci», cogliendo il treno al volo. Ovviamente non è così: per prendere il treno occorre andare alla stazione, e bisogna scegliere quello giusto, magari con i vestiti adeguati e la percezione che solo Guido Harari. Uno che ha praticato la critica musicale con indubbia sensibilità e gentilezza (tessendo una ragnatela di rapporti di fiducia con i protagonisti delle proprie foto) e portando con sé una seria quanto profonda delicatezza. Uno che ha uno sguardo unico e speciale. Se no come farsi venire in mente di fotografare Fabrizio De André mentre si sottopone al taglio di capelli da parte di Dori Ghezzi? o addormentato a terra conto un termosifone? Istigare Francesco Guccini a sedersi sulle rotaie (e aspettare la locomotiva?), Giovanni Lindo Ferretti che scruta il mondo di sottecchi nascosto da un cavallo? E tacciamo di Umberto Eco che suona la tromba, Frank Zappa in mutande sul palco alla prova-concerto, Tom Waits artista di strada.
Un florilegio di storie, speciali nella loro unicità ma anche significative nel loro assieme: questo vuol dire in fondo essere artisti, rimanere attenti al particolare, magari mettendolo a fuoco (lo stretto vagone di una volta dove far sedere il Liga, il mare d’inverno dove far passeggiare Gino Paoli e Ornella Vanoni) senza dimenticare il generale. Scegliendo per ogni soggetto il formato adeguato: la gigantografia a colori per la leonessa ruggente Tina Turner, il bianco e nero anche sfuocato per i colombi che coprono Lucio Dalla in Piazza maggiore a Bologna.
Ogni focus merita una sosta, ogni quadro induce ad un ritorno per i necessari collegamenti. Magari anche nostalgici per chi ai tempi c’era (la panoramica sulla gestualità di Gaber a fine spettacolo è da antologia), di meraviglia per chi grazie a questa mostra semplicemente scopre un mondo che fu, ma che rimane ancora attuale.
Ovviamente alla mostra è stato dedicato un signor catalogo, dal titolo omonimo e (ben) stampato da Rizzoli. Inoltre certe fotografie firmate dallo stesso Harari sono acquistabili direttamente alla Fabbrica. La mostra rimane aperta fino al 1° aprile. Tutte le foto sono però ugualmente fruibili presso lo studio dello stesso artista, ad Alba: una meta non proprio banale, specie in autunno.
La Fabbrica del Vapore, che tra l’altro ha recentemente ospitato una mostra dedicata a Zerocalcare, non è proprio semplice da raggiungere. Per arrivarci occorre fare capo alle cartine elettroniche oramai presenti su tutti i cellulari. Un fastidio ripagato dal fatto che si attraversa un quartiere affascinante: Chinatown. Un valore aggiunto.