Non dimentichiamole
Il dovere di ricordare, ogni giorno, la strenua e terribile battaglia per il diritto di esistere delle donne iraniane
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Il dovere di ricordare, ogni giorno, la strenua e terribile battaglia per il diritto di esistere delle donne iraniane
• – Simona Sala
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• – Simona Sala
Il dovere di ricordare, ogni giorno, la strenua e terribile battaglia per il diritto di esistere delle donne iraniane
Donna, vita, libertà è forse lo slogan più importante da salvare di un 2022 che per molti versi ci ha lasciato un mondo in frantumi. Tre sostantivi giustapposti che, se per noi figlie dell’Occidente democratico sono poco più di uno slogan, per le donne iraniane rappresentano tutto ciò che è loro proibito: donna non possono esserlo e ogni rimando alla propria appartenenza di genere (capelli, forme del corpo) dev’essere nascosto brutalmente dal velo e da tuniche informi; vita non ne hanno, se non possono vivere ciò che sono per nascita; e libertà, beh, quale prigionia maggiore è possibile immaginare, oltre a quella di non potere essere?
Era il 16 settembre quando la giovane Mahsa Amini, diventata il volto simbolo delle vittime dell’atroce repressione iraniana, fu portata via a suon di bastonate su uno dei famigerati mezzi delle forze dell’ordine. Rea, come tutti sappiamo, in linea diretta dell’infamante crimine di non avere indossato il velo come da precetto, indirettamente del fatto di essere una donna e di non vergognarsene, rifiutandosi di rinunciare al suo genere biologico, di nascondere ciò che rende bella ogni ventenne di questa terra: la luminosità e la speranza negli occhi, le labbra pronte a sorridere, l’irriverenza di un’innocente ciocca che ricade sul volto.
Dopo decenni in cui la società iraniana è stata costretta ad adattarsi a un’esistenza divisa tra vita interiore e vita esteriore, vita pubblica e privata (in casa capelli sciolti, musica, studio e risate; fuori l’abdicazione immediata alla propria voglia di femminilità sotto gli occhi affilati di forze dell’ordine armate di bastone e «guardiane» delatrici votate al sistema, agghindate come funebri cornacchie), le barbare modalità dell’assassinio di Mahsa Amini sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso, spingendo donne e uomini a tagliarsi una ciocca di capelli in un primo momento e poi a riversarsi per le strade e protestare. E la reazione istituzional-religiosa non si è fatta attendere: è esplosa la barbarie dello Stato verso le proprie figlie e i propri figli, le madri e i padri, le sorelle e i fratelli, con esecuzioni, stupri anche su bambine e torture di violenza inenarrabile.
«Se non è una rivoluzione, cos’è?», si chiedeva l’attivista per i diritti umani e vincitrice del Nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi sulle pagine del «Tages Anzeiger» a fine dicembre, cogliendo anche l’occasione per domandarsi perché il Consiglio federale non abbia aderito alle sanzioni dell’UE nei confronti dell’Iran (domanda peraltro più che lecita). Berna è evidentemente inibita dal proprio ruolo di mediatrice internazionale per l’Iran, ma è comunque necessario che una rivoluzione si compia e la vita sia preservata, dunque – come ribadisce Shirin Ebadi – non possiamo dimenticarci di loro, ma dobbiamo continuare a tenere, giorno dopo giorno, l’attenzione desta.
Parlandone, scrivendone, facendo circolare video e foto. Così come, dall’Iran, lo chiedeva anche una anonima ragazza il 14 dicembre scorso sul «Corriere della sera» quando, a proposito delle e dei giovani in carcere, diceva «siate la loro voce!». Ci stanno provando i parlamentari del gruppo interpartitico svizzero Free Iran attraverso un’azione di padrinato (avviatasi anche in Austria e in Germania) e giornaliste del calibro di Federica Sciarelli di Rai3, che in una finestra di “Chi l’ha visto”, insieme a Marina Borrometi e Francesca Carli, ogni settimana propone un reportage che nasce e cresce grazie a social come Twitter e Telegram, ad esempio nel profilo @1500tasvir o in quello della giornalista e attivista iraniana Masih Alinejad, in cui iraniane e iraniani di colpo hanno un volto, una storia e un destino.
È arduo indagare laddove i giornalisti sono imbavagliati, in un luogo dove il sangue scorre ogni giorno e la morte non fa più notizia, ma grazie al lavoro certosino delle tre giornaliste italiane scopriamo storie struggenti come quella della madre che picchia il pugno sul portone del carcere chiedendo che le venga restituita la figlia perché le hanno già ucciso il figlio, o della dottoressa che operava i manifestanti feriti fino a essere arrestata e assassinata con una serie di sevizie difficilmente narrabili. A tutte e tutti noi, in questo 2023, spetta dunque il compito di non dimenticarle, le iraniane, che insieme alle loro cugine afghane sognano solamente una vita in cui essere donne e libere.
Testo scritto per “Azione”
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