Auto elettrica poco green e troppo business

Auto elettrica poco green e troppo business

Disastri ambientali, pesante sfruttamento del lavoro minorile, e corsa a iper-profitti per realizzare il “sogno del futuro”


Renato Delorenzi
Renato Delorenzi
Auto elettrica poco green e troppo business

Alcuni dati incontrovertibili: il mercato dell’automobile nel mondo è di circa 28 milioni di veicoli prodotti ogni anno in Cina ( 50 milioni in tutta l’Asia, compreso il Giappone e la Corea), 22 milioni in Europa e 18 milioni in America del Nord. La Cina produce oggi il 65% delle batterie elettriche  che equipaggiano le auto cosiddette  “pulite” nel mondo. L’Impero di Mezzo è quindi in posizione di quasi-monopolio, indipendentemente dalle declamazioni o gesticolazioni europee. Molteplici fattori fondamentali lo giustificano.

A cominciare dalle famose “terre rare”, che in realtà cosi rare non sono. Si tratta di 17 elementi facenti parte della famiglia dei metalli, ricercati da USA e Unione europea, ma rigorosamente controllati  dalla Cina in ragione del 98% . “Il Medio Oriente ha il petrolio, noi i metalli rari” andava proclamando Deng Xiaoping, l’architetto della Cina contemporanea, protagonista del miracolo economico cinese.
Con alcune terre rare, i motori delle auto elettriche hanno prestazioni più efficienti, ma il loro processo di estrazione e di raffinazione richiede temperature molto elevate con forte dispendio di energia e l’uso inevitabile di acidi corrosivi, tali da produrre effetti devastanti sulla biodiversità e sulla qualità di vita delle persone. La leadership della Cina  non è dovuta a particolari astuzie tecnologiche quanto, piuttosto, ad una imperturbabile tolleranza nei confronti del fattore inquinamento. L’importante è che all’ombra  della grande muraglia si sviluppi un’industria dell’auto “pulita” sempre più pervasiva. Ben altre ragioni ancora inducono la Cina ad avere un ruolo di primo piano nel primato dell’elettrico. E’ l’unico paese al mondo in grado di produrre litio, dalle materie prime alle batterie finite senza dover ricorrere a prodotti chimici o componenti importati. 

La Cina sta addirittura rafforzando la sua volontà di dominio già presente in Cile, con lo sfruttamento di fonti,  finora inesplorate, di litio nello Xinjiang e nei laghi salati dell’altipiano tibetano al prezzo di vite umane sacrificate nelle miniere. Lo stesso dicasi  della Repubblica Democratica del Congo, il maggior produttore di cobalto al mondo, seguito a distanza da Russia, Australia, Filippine e Cuba. La Cina, anche in Africa, è posizionata al primo posto in tutte le fasi di lavorazione del prodotto, dalla miniera fino alla vendita diretta dell’auto elettrica. Proprio grazie al cobalto  è possibile incrementare l’autonomia di percorrenza delle auto elettriche. Il 2035 dovrebbe decretare, secondo il volere di Bruxelles, la fine del motore a carburante fossile. Da quella data in poi,  la richiesta di cobalto crescerà in misura esponenziale, ad un prezzo ovviamente aggiornato, di volta in volta, alla domanda. Con la possibile presenza esclusiva di auto elettriche sul mercato a partire dal 2035,  si porrà inevitabilmente il problema delle materie prime indispensabili per la fabbricazione delle batterie, senza parlare del fabbisogno energetico per garantire l’intero processo produttivo. 

Materie prime che via via andranno esaurendosi ed energia, obbligatoriamente “pulita”, in forte difficoltà di fronte ad un fabbisogno in crescita esponenziale. Sul fronte specifico del cobalto, l’abbondante richiesta  di materia prima, potrebbe portare le aziende che lo estraggono in miniera a spremere oltre misura i giacimenti con danni ambientali enormi e orari di lavoro sempre più massacranti. A questo punto il problema etico-politico assumerà dimensioni di estrema gravità. Nelle miniere congolesi del Katanga, il 15-20% della produzione è artigianale. L’estrazione del cobalto è energivora, richiede esplosioni continue che diffondono nell’atmosfera polveri e particolati  nocivi per la salute. Ne consegue un numero cospicuo di infezioni polmonari e malformazioni congenite nei neonati. Senza parlare dello sfruttamento minorile.
Sono 40’000 i bambini, dai 6 anni in su ad essere sfruttati fino a 12 ore al giorno per l’irrisorio compenso di uno, massimo due dollari. Su 365 giorni, un bambino ne passa 300 in miniera a scavare a mani nude e spesso obbligato, senza protezione, a infilarsi in cunicoli stretti  e  poi riapparire in superficie, se tutto va bene,  con le mani immerse in acque melmose e inquinate, per separare  il materiale  utile dai detriti. E’ di qualche tempo fa la notizia di un contratto colossale per la fornitura di cobalto che la società cinese China GEM ha sottoscritto con GLENCORE un contratto per l’acquisto di un terzo della  produzione di quest’ultima. 

Glencore, colosso svizzero con sede a Zugo, è il primo produttore di cobalto al mondo con l’estrazione di circa 40’000 tonnellate  l’anno e una cifra d’affari, sempre annua,  pari a 200 miliardi di euro. L’espansione di simili colossi minerari e la crescente domanda da parte dell’industria automobilistica hanno finalmente spinto le autorità congolesi a pianificare  un aumento delle tasse sull’export dal 2 al 5%. Quel denaro, se davvero entrerà  nelle casse statali non certo floride,  verrà utilizzato per riscattare i 40’000 bambini dal lavoro in schiavitù ? Il popolo congolese fatica a crederci. E la mobilità green che si muove indisturbata dentro questi scenari, con le complicità che sappiamo,  non è forse anch’essa figlia di una speculazione senza scrupoli chIamata elegantemente business?

Nell’immagine: giovani minatori di cobalto nella regione di Kailo (Repubblica Popolare del Congo)

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