Migranti, giovani vite messe in attesa
Aumentano drasticamente gli sbarchi di migranti e con essi continua la crescita dei minori stranieri non accompagnati. Egitto, ai primi posti per provenienza
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Aumentano drasticamente gli sbarchi di migranti e con essi continua la crescita dei minori stranieri non accompagnati. Egitto, ai primi posti per provenienza
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Alcuni gironzolano nel cortile. Altri se ne stanno seduti a terra con i loro smartphone. Siamo all’oratorio di Rebbio, un quartiere a sud della città di Como. 45 giovani adolescenti, perlopiù di età compresa fra i 15 e i 17 anni, sono accolti qui. Si tratta di ragazzi provenienti dal Nord Africa. In maggioranza sono egiziani.
Como è da anni interessata dai flussi migratori. Se per molti, la città è considerata solo un punto di passaggio per proseguire verso la Svizzera e oltre, per altri non è così. «Mio cugino vive a Milano da parecchi anni. Vorrei rimanere qui e poi provare a raggiungerlo», afferma un giovane, mostrandomi le foto del parente dal profilo Instagram.
Ci sono ragazzi e ragazze che vogliono restare in Italia, talvolta in Lombardia, e necessitano di accoglienza e assistenza che, purtroppo, non sempre trovano. Le strutture di accoglienza – compresi i centri per i minorenni – sono infatti al collasso, senza più posti letto da offrire. È così che laddove le istituzioni non arrivano, subentrano associazioni e parrocchie: l’oratorio di Rebbio in questo caso.
In Italia, le istituzioni dovrebbero farsi carico dei minori stranieri non accompagnati, così come stabilito dalla legge 47/2017, conosciuta anche come legge Zampa. I Msna hanno diritto ad un’accoglienza immediata e diversa nonché di essere collocati in una struttura governativa di prima accoglienza a loro dedicata.
30 giorni il tempo massimo di permanenza dei minori nelle strutture di prima accoglienza. Così recita la legge prevedendo che, trascorso tale arco temporale, bambini e ragazzi siano trasferiti nei centri di seconda accoglienza. La realtà è, però, ad oggi, ben diversa. L’indisponibilità delle strutture sommata ai tagli dei fondi allunga drasticamente i tempi di permanenza nei centri di prima accoglienza e ai giovani non resta che attendere. Ci sono casi – non infrequenti – nei quali i ragazzi si trovano a vivere in questi centri fino a 6/8 mesi, e comunque per un periodo molto superiore ai 30 giorni previsti. «Vivo qui da ormai 8 mesi. Sono arrivato che avevo 17 anni e mezzo. Ho fatto in tempo a compiere i 18», mi racconta G., che ha così perso il diritto di essere inserito in un centro di seconda accoglienza e iniziare un percorso d’integrazione.
Vite in attesa. Queste le parole che mi affiorano alla mente ascoltando le loro storie. Molti ragazzi hanno dovuto aspettare a lungo prima di partire.In Libia, hanno atteso il loro turno vivendo in condizioni durissime, violente e subendo continue minacce. C’è a chi è toccato aspettare “solo” un paio di mesi, a chi 5 e a chi, come J., quasi 1 anno.
«In Libia ho aspettato 9 mesi prima di essere imbarcato. Eravamo in tanti. Tutti ammassati in questa casa. […] Aspettavamo e basta. I libici sono matti. Non puoi permetterti di dire nulla né tantomeno di fare quello che ti pare», mi dice J. che conclude il racconto portandosi il pollice al collo e mimando il taglio della gola.
Ma questa è solo la prima di una lunga serie di attese. E i ragazzi lo scopriranno ben presto. Approdati sull’altra sponda del Mediterraneo, i giovani si abitueranno ad aspettare per tutto. Devono aspettare per essere collocati in un centro che abbia posti disponibili così come per veder loro assegnato un tutore. Devono attendere per avere una risposta ad una loro eventuale richiesta di protezione internazionale. Stessa cosa per potersi ricongiungere con i propri familiari presenti in altri paesi europei. «Sono arrivato a Pantelleria. Da lì sono finito a Napoli. Poi non so più dirti bene quali città ho attraversato. Sono stato sballottato qua e là», mi racconta un giovane che, sorridendo, conclude: «Non so manco io dove arrivavo e da dove ripartivo. So solo che sono a Como da un mese».
I lunghi tempi di attesa non sono l’unica criticità. Emerge come anche le condizioni di accoglienza non sempre risultino adeguate a rispondere ai particolari bisogni dei ragazzi che, non va dimenticato, hanno spesso viaggiato soli e vissuto traumi più o meno importanti.
I centri di accoglienza sono spesso sovraffollati e il numero di operatori, non proporzionato a quello di utenti accolti, fatica a rispondere a tutte le necessità. È così che i ragazzi si ritrovano ancora una volta soli, privati delle dovute attenzioni e cure, senza una figura di riferimento e un adeguato supporto psicologico.
M., per esempio, all’apparenza un giovane uomo, si comporta come un bimbo. Se ne sta in disparte per la maggioranza del tempo. Rinchiuso in sé stesso, non interagisce con nessuno. Ogni tentativo di aggancio sembra essere nullo. «Tanto tu non mi vuoi bene!». Questa è la reazione del ragazzo che, nel pronunciare tali parole, ristabilisce le distanze. M. ha lasciato la sua famiglia all’età di 10 anni per mettersi in viaggio. Un viaggio lungo, duro e disumano. Una viaggio che l’ha portato a vivere in strada per 9 anni. I traumi e le ferite – spesso inferte proprio da persone adulte – sono una delle poche cose che si è portato con sé in Italia.
L’eventuale assenza di attività formative, culturali e sportive va ad alimentare questo senso di solitudine e smarrimento. I ragazzi faticano a dare un senso alle giornate e a scandire il tempo. Si sentono parcheggiati in attesa che succeda qualcosa, che sia un trasferimento o semplicemente qualcosa da fare. G., un ragazzo di 17 anni, racconta: «Sono sbarcato in Sicilia, dove sono stato preso a carico dagli operatori e collocato in una comunità di minori a Benevento». Il giovane che, al momento, si trova presso l’oratorio di Rebbio, mi confida di essere scappato dalla comunità dopo qualche mese. «Mangiavamo e dormivamo. Fine. Niente corsi per imparare le lingua italiana. Niente attività. Niente prospettive lavorative. Nulla di nulla».
Attesa e inattività genera nei ragazzi una forte frustrazione che va ad alimentare le incertezze sul futuro e che, alcune volte, li porta a scappare dalla realtà in cui si trovano. Questo è molto vero per i giovani egiziani, migrati in Europa con l’obbiettivo di fare qualcosa per sé e per la propria famiglia rimasta in Egitto, desiderio che spesso si scontra con un presente che pare immobile.
Gli egiziani che attraversano il Mediterraneo sono quasi tutti ragazzi molto giovani con un obiettivo ben preciso: migliorare le condizioni di vita individuali e quelle della propria famiglia. Non scappano da guerre né tantomeno da conflitti. Scappano dalla povertà, aumentata a seguito della crisi politico-istituzionale seguita alla Primavera araba del 2011. I servizi pubblici sono deteriorati e il contesto socio-economico si è indebolito, determinando un calo generale nello standard di vita della popolazione. Si stima che il 27,8% della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà. «In Egitto non si sta bene. Non c’è lavoro. Non c’è niente». È così che i ragazzi mi descrivono il luogo dal quale provengono.
Si tratta in particolare di alcuni governatorati come Gharbia eSharkeia, o Kafr El Sheikh e Behera nella zona del Basso Egitto e Delta del Nilo, ma anche di zone più a Sud, come Assyut. Sono zone prevalentemente agricole. Le opportunità di lavoro mancano e i salari – piuttosto bassi – si scontrano con i prezzi dei beni primari – come l’acqua o l’elettricità – che aumentano di continuo. Anche facendo due lavori non si arriva a guadagnare abbastanza per sfamare una famiglia.
Alcuni dei ragazzi sono analfabeti. La necessità di sostenere economicamente la propria famiglia li ha portati ad abbandonare la scuola precocemente e ad inserirsi nel mondo del lavoro già a 12 o 13 anni. Questa loro disponibilità a farsi fonte di entrata economica fa sì che questi giovani acquisiscano molto presto una responsabilità che spesso contribuisce alla loro decisione di imbarcarsi per l’Europa.
«Sono stato più di 7 giorni nel Mediterraneo. Viaggiavamo di pari passo con un’altra barca. Finché questa non si è bloccata. Sulla mia c’erano circa 400 persone. Sull’altra 350». I. prende il telefono e mi mostra un video. Aveva filmato il viaggio: la sua barca aveva trainato l’altra fino a riva. I. non è l’unico ad avere documentato il viaggio. Un altro ragazzo mi mostra alcuni video, nel suo caso, pubblicati su TikTok. La distesa di persone a bordo della barca, poi il primo piano: lui con altri due ragazzi sorridevano e salutavano. Il giovane, di 17 anni, mi dice: «L’ho messo sui social appena sono riuscito, così che la mia famiglia e i miei amici potessero vedere dov’ero e che stavo bene».
A volte molti di noi si domandano perché i migranti possiedono lo smartphone. Non sarebbe meglio usassero i soldi per cose più necessarie?
Questa è la domanda che ci si pone, dimenticandosi che, forse, spetta più agli altri che a noi stabilire ciò che è necessario per loro. E, in questo caso, alcuni giovani potrebbero rispondere che lo smartphone è la cosa più preziosa di cui dispongono e che hanno deciso di portare con sé quando sono partiti.
I ragazzi si mettono in viaggio da soli, lasciandosi alle spalle tutto ciò che hanno. Spesso, il cellulare è per loro l’unico legame con chi stanno lasciando. Se, durante il viaggio, i ragazzi lo usano per rassicurare i familiari, una volta arrivati lo utilizzano per sentirsi un po’ meno soli, chiacchierare con parenti e amici, e magari per vedere anche i loro volti. Perdere il cellulare, alle volte, significa per loro perdere ogni legame con la propria terra e la propria famiglia. «Non ho più contatti con la mia famiglia da quando sono arrivato” mi dice M. “Li ho persi tutti e, essendo solo senza nessun parente qui, non c’è modo che io possa recuperarli. Sai, alle volte, la vita va così».
Nell’immagine: l’ingresso dell’oratorio di Rebbio
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