Naufraghe – La storia di Jane e delle perline che decorano i sandali masai

Naufraghe – La storia di Jane e delle perline che decorano i sandali masai

L’incontro con una donna di Nairobi, in Kenya, con una storia di vita e di resistenza che nel silenzio è capace di segnare una possibile via di cambiamento in tutto il continente


Roberta Bernasconi
Roberta Bernasconi
Naufraghe – La storia di Jane e delle...

Non è a Ellen Johnson Sirleaf, prima presidente eletta di un paese africano, la Liberia, che penso, riflettendo sulla forza delle donne in Africa. Né a Grace Mugabe che, in Zimbabwe, avrebbe voluto succedere al marito Robert alla testa dello Stato. Piuttosto, a tornarmi in mente è una donna incontrata in uno slum di Nairobi, in Kenya. 

Era minuta e con una straordinaria energia, che subito mi colpì, tanto da seguirla, appena incontrata, con totale fiducia, a casa sua. C’era da varcare un cancello azzurro che si apriva su un piccolo giardino. Qualche capretta approfittava della poca erba rimasta. Successivamente, due file di baracche separate solamente da una piccola striscia di terra. Le pozzanghere di fango che costellavano il terreno erano il risultato dell’acqua dei panni ancora inzuppati che vi penzolavano sopra, così che per arrivare all’ingresso della sua casa si trattava di fare una sorta di slalom fra gonne e camicie gocciolanti. Ma alla fine, eccomi arrivata a casa di Jane. 

Era piccola, ma piuttosto accogliente. Subito entrando sulla sinistra, ecco una poltrona dove Jane mi invita a sedere. Accanto, un divano dove stavano accucciate tre bambine. Le sue bambine. Intente a guardare un cartone animato su un piccolissimo schermo che poggiava sull’unico scaffale presente nella stanza si distrassero subito alla vista di una mzungu – termine in kiswahili, la lingua ufficiale kenyana, usato per riferirsi a chiunque abbia la pelle bianca.

Ma Jane richiama di nuovo la mia attenzione. I suoi occhi brillano. E con orgoglio mi indica una vecchia macchina da cucire. È poggiata su un piccolo tavolo all’angolo della stanza. Dettaglio che prima mi era sfuggito. Forse, colpa dell’oscurità. Ma d’altronde, le case in lamiera spesso non hanno finestre. E i nostri occhi hanno bisogno di qualche minuto per abituarsi alla poca luce.

Jane iniziò a raccontarmi nel dettaglio, e con orgoglio, del suo business. Da qualche anno realizzava decorazioni in perline per i sandali masai. Quelli fatti in cuoio. 

“Sai, non si può più fare affidamento sugli uomini per sopravvivere. Dipendere da loro è rischioso. E vorrebbe dire vivere costantemente sotto scacco”. 

Jane sosteneva che sempre più donne si emancipano economicamente e che spesso è proprio il lavoro delle donne a permettere alle famiglie di sopravvivere. 

“La donna contribuisce sempre più economicamente. In alcuni casi, si è addirittura sostituita all’uomo. Ed è un bene. Perché così facendo non solo salva la famiglia, ma anche sé stessa”. 

Parole forti che sul momento non sapevo come interpretare. Cosa voleva realmente dirmi, lo capii solo successivamente.  

Jane invitò le bimbe ad uscire e iniziò a parlarmi di qualcosa che mai mi sarei immaginata. Mai avrei pensato che quel sorriso potesse celare un passato fatto di violenze e di difficoltà.

Jane era sieropositiva. Oggigiorno, nulla di drammatico sul piano della salute fisica. La medicina ha compiuto passi da gigante e fare una vita “normale” con l’HIV è possibile. Tuttavia, non si può dire lo stesso se si pensa all’aspetto psicologico. 

Stigma e discriminazioni sono oggi una delle maggiori sfide per le persone che vivono affette dal virus. Le persone sieropositive sono temute e spesso associate a concetti morali di colpa, responsabilità e merito. Lo è da noi. E lo è dall’altra parte del Mediterraneo.

In Kenya, lo stigma è tuttora radicato e parte integrante della quotidianità. Dire che è lì, ad aspettare dietro l’angolo, sarebbe dire poco. È molto ma molto più vicino. È dentro le mura – o meglio, le lamiere – di casa.

“Quando ho scoperto di essere sieropositiva non l’ho detto subito a mio marito. Avevo troppa paura della sua reazione”.

Mi racconta di quanto sia stato difficile non solo scoprire ed accettare la malattia, ma soprattutto continuare a condurre la propria vita quotidiana facendo finta di nulla e tenendo la cosa all’oscuro da tutti. 

“Dovevo prendere le medicine di nascosto. Stessa cosa per le visite in ospedale. Non dovevo farmi beccare”. 

Jane è andata avanti così, fino a quando aveva ormai raggiunto un punto di non ritorno.

“Non potevo più continuare a vivere in quel modo. Era troppo stressante. Così, ho deciso di parlare a mio marito. Sicuramente mi sono tolta di dosso un fardello ma, non posso negare, di essermene presa uno ancora più pesante”. 

Dopo avere scoperto lo stato della moglie, l’uomo ha infatti cambiato completamente atteggiamento nei suoi confronti e per Jane è iniziato l’incubo. 

“Mi picchiava continuamente. Mi colpiva ovunque, testa compresa. Sono finita all’ospedale parecchie volte”, disse Jane, aggiungendo: “Capitava che, dopo avermi picchiata, mi cacciava fuori di casa con le bimbe nel bel mezzo della notte”.

Quando l’ho incontrata, Jane aveva ormai abbandonato il marito da diversi mesi. Oltre ad aver fatto denuncia nei suoi confronti. E viveva a Nairobi con le sue bimbe. Il suo business le permetteva di mantenere la casa, le bambine e, alle volte, pagare anche la retta scolastica, per poterle così mandare a scuola. 

Tutta questa storia mi fa sentire piccola. 

Fragilità e forza. Violenza e resilienza. È tutto lì. Tutto insieme. Davanti ai miei occhi.

Sul punto di andarmene, scoprii che Jane non aveva ancora compiuto i trent’anni. Era del 1997. Ben 4 anni in meno di me.  Ma quanto più grande di me mi appariva, nella sua capacità di resistere dando un senso alla propria vita. 

A donne come Jane i mezzi d’informazione non dedicano neanche una frazione dello spazio occupato dalle figure femminili più note del continente: in positivo, come Ellen Johnson Sirleaf, o in negativo, come Grace Mugabe. Eppure, a volte, la forza che esercitano nel luogo in cui vivono è straordinaria. 

Da vittime, sono coloro che diventano attrici del cambiamento. Sono attiviste senza dichiararsi tali. Forse senza nemmeno sapere cosa voglia dire quel termine. Sono forti. Senza fare rumore. Ma il loro è un silenzio che sa diventare assordante, perché quella loro forza riesce a farsi elemento trainante della resistenza di intere comunità, dove donne come Jane mostrano la via, fra gonne e camicie gocciolanti, per ritrovare la propria casa e la propria dignità. 

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