Elogio della Qualità, pur non sapendo bene cosa sia
Pubblicati gli scritti postumi di Robert M. Pirsig, l'autore del celebre "Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta"
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Pubblicati gli scritti postumi di Robert M. Pirsig, l'autore del celebre "Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta"
Cos’hanno a che spartire una chiave inglese e la salvezza dell’anima? E gli ingranaggi di una motocicletta e le filosofie orientali? Nulla, oppure tutto, a seconda del punto di vista dal quale li si osservi. Chi ha letto il bestseller di Robert Pirsig uscito nel 1974, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, versione aggiornata e on the road di Lo Zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1948), sarà forse più propenso ad accettare la seconda ipotesi, tanto è bravo l’autore a connettere atmosfere e mondi lontani, tecniche di respirazione e bulloni.
Enfant terrible della letteratura americana, in un contesto nel quale gli enfants terribles davvero non mancavano, Pirsig è stato una sorta di Glenn Gould della filosofia del secondo Novecento: geniale a tratti, a tratti invece quasi naïf (nella sua ambizione di fondere in un unico sistema di pensiero la mentalità occidentale e quella orientale, l’approccio classico e quello romantico) e passibile persino di ignoranza manifesta (riteneva che per il Medioevo la terra fosse piatta, da cui il mito ermeneutico delle scoperte di Cristoforo Colombo: avesse visto una sola statua lignea di Carlo Magno con il globo in mano si sarebbe forse ricreduto).
Lungi dall’essere un’esperienza zen, il suo viaggio in moto con il figlio Chris e gli amici John e Sylvia Sutherland è in realtà un sofferto attraversamento della propria anima in anni successivi a un terribile esaurimento nervoso curato anche con l’elettroshock, emblema di un autore votato come pochi all’introspezione (quasi patologica) e sempre più incartato nel giro dei suoi stessi pensieri, fino al limite dell’incomunicabilità.
Nella sua opera, che oltre al capolavoro conta un solo altro libro, Lila, scritto nel 1991 sulla medesima lunghezza d’onda del primo (ma alla motocicletta si sostituisce qui un viaggio per mare in barca a vela), tutto ruota attorno a un unico grande concetto, quello della Qualità, e a un unico vero obiettivo: tentare di definirla in termini, se non scientifici, quantomeno esperienziali. Provare a circoscrivere a parole che cosa intenda Pirsig per Qualità, un concetto che lui stesso suggerisce di chiamare anche Valore, equivarrebbe a riscrivere per intero le sue riflessioni, che rimangono interessanti proprio per la loro natura aperta e per il loro essere state, in una certa misura, profetiche: si pensi al grande parlare che si fa oggi di sostenibilità, cioè la ricerca di un sano equilibrio nella vita di tutti i giorni (anche in quella professionale) tra le risorse e gli obiettivi; ma si pensi anche al fenomeno delle Grandi Dimissioni e al sempre più difficile rapporto delle giovani generazioni con un mondo del lavoro subìto e inteso soprattutto in termini di “servitù”; infine, si pensi al continuo risorgere di interesse, all’interno della cultura occidentale, per tecniche di pensiero e rilassamento di provenienza lato sensu orientale, dallo yoga alla mindfulness. Tutto questo, in nuce, era già compreso nelle riflessioni di Pirsig attorno alla Qualità.
Rileggendo oggi i suoi scritti – anche quelli non confluiti nell’opera maggiore e raccolti ora da Adelphi in un delizioso libretto antologico arricchito da alcune interviste e da un profilo autobiografico che spiega molte cose – si coglie tutta la portata di un dramma filosofico inscindibile dalla sua stessa parabola esistenziale: bambino prodigio con un quoziente intellettivo superiore al 170, iscritto precocemente all’Università, non ottenne mai la laurea in chimica e insegnò invece per qualche anno scrittura creativa alla Montana State University di Bozeman, non senza essere passato prima dai casinò del Nevada (come croupier) e dalle scuole di meditazione indù di Benares.
Tra il primo e il secondo libro dovette affrontare la morte violenta del figlio, vittima di una rapina di fronte al centro zen di San Francisco, e per anni portò avanti una sua personale crociata con il mondo accademico tradizionale e soprattutto contro gli antropologi che studiavano i nativi americani con metodo scientifico, salvo poi evitare di trarre conclusioni dalle loro ricerche (allora tanto valeva muoversi per vie empatiche). Provò a scardinare dall’interno questo sistema egemonico molto in auge negli atenei statunitensi di allora, un sistema al contempo culturale e didattico, ma la sua fu una battaglia contro i mulini a vento che lasciò sul campo un’unica vittima illustre: lui stesso. Scomparve un po’ in sordina nel 2017, cristallizzato per sempre, con il sorriso malinconico e il figlio Chris aggrappato alla sua schiena, in sella all’amata motocicletta [nell’immagine].
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