Il mondo salvato dai giusti
Una conversazione su La Stampa a cura di Simonetta Scandivasci con Vito Mancuso e Gabriele Nissim in occasione della Giornata dei Giusti dell'Umanità
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Una conversazione su La Stampa a cura di Simonetta Scandivasci con Vito Mancuso e Gabriele Nissim in occasione della Giornata dei Giusti dell'Umanità
• – Gabriele Nissim
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• – Gabriele Nissim
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• – Gabriele Nissim
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• – Gabriele Nissim
Una conversazione su La Stampa a cura di Simonetta Scandivasci con Vito Mancuso e Gabriele Nissim in occasione della Giornata dei Giusti dell'Umanità
GABRIELE NISSIM
Caro Vito, ci unisce il pensiero. Mi ha colpito, da subito, il tuo lavoro sull’etica, e l’idea che lo governa: l’uomo può scegliere, come diceva Pico Della Mirandola, tra l’essere produttore di male e l’essere produttore di bene. L’attenzione che poni sull’importanza dell’educazione etica riguarda profondamente quello che cerco di fare attraverso I Giardini dei Giusti e con la fondazione Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), che si propone da molti anni uno scopo vasto ma preciso: far conoscere i Giusti educando alla responsabilità personale, nella convinzione che il bene sia uno strumento educativo e serva a prevenire genocidi e crimini contro l’umanità. Ma chi sono i Giusti? Moshe Bejski, quando diventò il grande artefice del Giardino, in Israele, lo fece per raccogliere le storie di coloro che avevano salvato delle vite durante la Shoah. In accordo con quello che dice il Talmud – “chi salva una vita, salva il mondo intero” -, Bejski identificava nei Giusti coloro che avevano salvato delle vite umane durante l’Olocausto. Più tardi, mi sono reso conto di quanto fosse importante e urgente includere in quella figura morale anche tutti coloro che salvano qualcuno da un genocidio: qualsiasi genocidio. E quello che cerco di fare, da allora, dopo essere riuscito a istituzionalizzare questo allargamento, è far capire alle persone che tutti possiamo essere Giusti, se alleniamo il nostro senso per il bene, se alimentiamo lo spirito. Possiamo e io credo anche che dobbiamo: per questo un’educazione etica è fondamentale.
VITO MANCUSO
Caro Gabriele, è vero: ci unisce il pensiero, e ci uniscono i nostri maestri. Vasilij Grossman parlava dell’importanza di risvegliare l’umano nell’uomo, e non mi viene in mente niente di più calzante per definire il punto di incontro tra il mio lavoro sull’etica e quello dei Giardini e della Giornata dei giusti. Mi piace moltissimo questa espressione: Giornata dei Giusti dell’umanità. Perché mi piace la tua idea di universalità e trasversalità: come te, credo che la tensione per il bene e la giustizia alberghi in ognuno di noi e che quindi ognuno di noi possa essere buono e giusto, o più precisamente possa agire per il bene e per la giustizia. Per farlo, ritengo sia necessaria una educazione etica, purché si ponga come obiettivo primario il ripristino della fiducia verso l’uomo. Ormai, pensare all’homo sapiens significa per noi pensare all’uomo bianco, al maschio occidentale, l’alfa, insomma al modello che ha trionfato finora. Non ci vengono in mente la giustizia e l’umanità ma soltanto la violenza, la distruzione del diverso per imporre se stessi. Non crediamo nell’uomo ed è paradossale: significa che non crediamo in noi stessi. E allora combattiamo una guerra civile, che è la peggiore delle guerre, perché non prevede un nemico esterno: lottiamo, dentro di noi, contro noi stessi. Ci vogliamo difendere dalla nostra stessa umanità, perché la riteniamo pericolosa, violenta, dispotica e in questa difesa non ci rendiamo conto che ci laceriamo, usiamo il filo spinato contro noi stessi, destinandoci inevitabilmente a ferirci. Ogni volta che squalifichiamo il genere umano, e lo riteniamo perduto e senza speranza, facciamo come il barone di Munchausen, quando provava a uscire da se stesso. Esiste una cura? Certo: vedere chi siamo davvero. Vedere che in noi esiste il bene. Non vale soltanto l’homo homini lupus (Hobbes) ma pure l’homo homini deus di Spinoza: non siamo capaci solo di sopraffazione ma pure di rispettare l’altro come fosse una divinità.
GABRIELE NISSIM
Voglio sottolineare che vedere il buono e il giusto dell’uomo, e dire che ciascuno può essere Giusto, significa accogliere l’errore, l’imperfezione. Tutti possono essere Giusti perché i Giusti non sono santi o eroi. Il bene possibile è un bene imperfetto e la giustizia possibile è una giustizia precaria. Quando vado nelle scuole, ai ragazzi racconto sempre l’altro lato dei Giusti. Schindler ha salvato moltissime vite, ma tanto prima quanto dopo la Shoah è stato un farabutto. Voglio dimostrare loro che l’azione buona è alla portata di tutti. Quando ho combattuto per universalizzare il concetto di Giusto, di uomini Giusti, mi sono scontrato con molte resistenze: alcune parti e istituzioni della comunità ebraica temevano che si perdesse la memoria della Shoah. Non ho mai capito in che modo quel rischio così temuto potesse concretizzarsi. Anzi. E questa resistenza mi ha convinto ulteriormente dell’importanza di ricordare alle persone che a renderci uguali c’è la possibilità di salvare gli altri e che tutti dobbiamo sentirci parte dell’umanità, perché qualsiasi genocidio, come osservava Raphael Lemkin, l’inventore di questo termine, colpisce tutti e impoverisce il mondo e non solo una parte. Se per esempio l’Ucraina perderà la sua libertà, tutti ne soffriremo ebrei e non ebrei.
VITO MANCUSO
L’altro ci rende chi siamo. Siamo abituati a pensarci monadi, staccati, ciascuno per sé, prima il sé e poi, eventualmente, il prossimo. È un errore ontologico prima che etico: a questo mondo non esiste niente che non risulti da una aggregazione. Essere è sempre un inter-essere: un esistere nella relazione. Lo dico perché mi affascina moltissimo il tuo sforzo di ribaltare la narrazione sul bene, come azione necessaria e quasi sacrificale.
GABRIELE NISSIM
Sono convinto che il successo del male sul bene, quando accade, e del dominio dell’egoismo sull’altruismo sia dovuto al fatto che pensiamo che fare il bene degli altri sia qualcosa che non solo non ci riguarda, ma non ci porta nessun vantaggio: talvolta, anzi, ci danneggia. Così, il volontariato è sempre vissuto come una sorta di privazione, un dovere cui assolvono uomini particolarmente virtuosi, disposti a perdere qualcosa. In questo modo, si ripropone quell’idea di bene elitario di cui parlavamo prima, e alla quale invece io cerco di opporre un bene imperfetto, alla portata di tutti. Non è vero che fare il bene degli altri, dedicarsi a loro, salvarli comporta una alienazione di noi stessi, una rinuncia, un sacrificio. Moltissimi filosofi hanno riflettuto su come il bene che faccio a te è prima di tutto un bene che faccio a me: Socrate, per esempio, diceva che è meglio subire un torto che farlo, per esemplificare efficacemente che ci danneggiamo di più quando feriamo il prossimo che quando veniamo feriti. Nel 1943, Dimitar Peshev salvò gli ebrei bulgari dai campi di sterminio scrivendo, in sostanza, in una lettera poi firmata da 42 deputati del parlamento bulgaro, che la deportazione degli ebrei era sconveniente per il Paese. Dettaglio: Peshev è nel Giardino dei Giusti a Milano e a Padova, oltre che al Yad Vashem. Altro dettaglio: Peshev aveva appoggiato l’alleanza con Hitler, a proposito di bene imperfetto, e di come i Giusti siano persone comuni, non eroi.
VITO MANCUSO
Mi viene in mente che il Giusto non risente del tempo: non cambia, non invecchia, non si svaluta. Il titolo di giusto è tale proprio perché prescinde dallo spazio e dal tempo. L’essere umano può essere invogliato al bene in qualsiasi momento perché la tendenza al bene è dentro di lui e perché, come dici tu, gli arreca vantaggio. L’azione giusta, facendoci giusti, ci guarisce. Abbiamo tutti negli occhi le immagini della tragedia di Cutro: piangiamo persone vittime dell’ingiustizia e della disumanità, morte perché qualcuno non ha sentito il loro grido. Ecco cosa non ci è ancora chiaro: chiudere gli occhi davanti a chi soffre significa trincerarsi nel clan, nella tribù, appunto nello spazio e nel tempo a cui la natura ti ha consegnato quando sei nato e che, però, la stessa natura ti ha dato gli strumenti per superare. In noi una scintilla non aspetta altro che essere accesa. E superiamo il clan nel momento in cui la scintilla, che è la propensione al bene e al giusto, viene accesa. Ed ecco il ruolo degli educatori: accendere nei ragazzi il desiderio di fare bene, dimostrare che quel desiderio e quel bene sono parte della loro sostanza, e assecondarli consente loro di evolvere, di superare le barriere del proprio circolo, le stesse barriere che, peraltro, gli adolescenti soffrono.
GABRIELE NISSIM
È in questo senso che io parlo di decostruzione della visione deterministica della storia: credo che nessuno possa sentirsi escluso da quello che succede. Credo che tutti debbano riconoscersi parte attiva, e quindi responsabili. L’esistenza in noi di quella scintilla ci dimostra che abbiamo gli strumenti per agire per il bene: una cosa che si esercita non necessariamente con azioni esaltanti, ma pure semplicemente scegliendo. Ecco, noi dobbiamo avere la consapevolezza piena del fatto che con le nostre scelte individuali condizioniamo il corso della storia, il futuro del mondo, il benessere dell’altro. E non è retorica: è la verità. La grande Storia non si subisce mai completamente: c’è sempre qualcosa che possiamo fare, anche se siamo minuscoli, anche se non guidiamo governi, o regioni, o cittadine. Questa responsabilizzazione è la base del lavoro che facciamo nelle scuole.
VITO MANCUSO
Penso a Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante. E immediatamente dopo, la parola evangelica: «Se non tornerete bambini, non entrerete mai». Per noi i bambini sono ingenui e l’ingenuità la intendiamo come una mancanza di mezzi per capire e decidere. Invece, un modo nuovo di stare dentro la storia, assumendosi la responsabilità di cui parli tu, richiede proprio una fede nella bontà e nella ingenuità. L’etimologia di ingenuo è: nato dentro. Allora, è alla nostra interiorità che dobbiamo tornare a guardare, per rinascere, pronti a stare nel nostro tempo con un’attitudine non nuova, ma autenticamente umana. L’azione che tu fai nelle scuole è importantissima ma non basta: la scuola deve strutturare una educazione costante a questi valori. Invece, vedo che i nostri ragazzi coltivano esclusivamente la parte cognitiva e non quella empatica. Le classi sono soltanto luoghi di istruzione e assecondare e nutrire solo quella parte di noi e del nostro cervello temo che finirà con il renderci, come diceva Tagore, coltelli fatti soltanto di lama, pericolosi per noi stessi.
GABRIELE NISSIM
Condivido. Ai ragazzi dobbiamo insegnare che esiste la possibilità, nella vita, di essere attori e non spettatori, come ci inducono a credere i social network, di fatto sollevandoci da qualsiasi responsabilità, e consentendoci di accomodarci in una rassegnazione e in un’impotenza che nascondono un grande cinismo e, soprattutto, un individualismo controproducente. Lo sottolineo ancora: dobbiamo renderci conto che l’egoismo è sconveniente. Siamo immersi in una cultura che svaluta lo sforzo del singolo, ed è a correggere questo che gli insegnanti devono dedicarsi. Il bene è ricchezza e gli altri ci rafforzano, non ci limitano. Forse è anche il momento di ribaltare l’idea che avere a che fare con gli altri comporti necessariamente una alienazione di una parte, più o meno piccola, di noi. È un pensiero che ha finito con l’indebolire, drammaticamente, la democrazia. La conoscenza di quello che succede nel mondo, insieme alla consapevolezza che lo determiniamo in ogni istante, scegliendo e agendo (anche scegliendo di non agire), ci porterà ad allargare i giardini dei Giusti di nuove storie, e a rendere la giustizia attraente. Ho combattuto, finora invano, affinché il parlamento italiano istituisse una sua sessione per ricordare tutti i genocidi, per presentare un report che aggiornasse i cittadini su quello che succede nel mondo, e quante vite si perdono, e quanti massacri avvengono senza che nessuno ne parli. Perché non c’è solo la memoria da onorare: c’è l’azione morale da esercitare. Chi salva una vita salva il mondo intero: mai come adesso abbiamo il dovere di ricordarlo.
Nell’immagine: la Sala dei nomi del Museo dell’Olocausto di Gerusalemme (Yad Vashem)
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