La “cultura marcia” di Credit Suisse

La “cultura marcia” di Credit Suisse

Tutti sapevano, ma il centro e la destra hanno sempre bloccato ogni tentativo di mettere in regola il settore bancario


Federico Franchini
Federico Franchini
La “cultura marcia” di Credit Suisse

“Non occorreva essere un veggente per capire che la cultura di Credit Suisse fosse marcia” ha scritto di recente il banchiere ginevrino Thierry Lombard. In effetti, che la banca fosse finita nella fossa del letame ce n’eravamo accorti un po’ tutti. Nel febbraio del 2022 ho seguito il processo al Tribunale penale federale, dove l’istituto era sul banco degli imputati assieme a due membri di un’organizzazione criminale bulgara. Credit Suisse, e con lei una sua ex dipendente, era accusata di avere riciclato decine di milioni di franchi per conto del boss Evelin Banev. Un brutto ceffo che non ha esitato a fare eliminare fisicamente i suoi rivali, a colpi di pistola o con veleno per topi. Evelin Banev era di casa a Zurigo. In Paradeplatz, i suoi uomini e le sue donne consegnavano milioni di euro in contanti, provenienti direttamente dalle piazze di spaccio europee. Leggere l’atto d’accusa – che poi ha portato ad una condanna per la banca – è stato come sfogliare un romanzo noir. Massimo Carlotto non avrebbe potuto fare meglio.

Coincidenza ha voluto che, proprio in concomitanza con questo processo, decine di giornalisti nel mondo hanno pubblicato gli Suisse Secrets. L’inchiesta, basata su documenti interni forniti da una gola profonda, ha messo in mostra la meglio clientela di Credit Suisse: oligarchi, spie, dittatori e criminali di ogni dove. Il nostro Evelin Banev, insomma, era solo uno tra i tanti.

L’onda d’urto mediatica suscitata dalla vicenda degli Suisse Secrets ha fatto reagire Credit Suisse. Come? Spingendola ad essere molto più severa con i giornalisti. A dicembre, la banca ha denunciato il sito svizzero-tedesco Inside Paradeplatz, specializzato nell’attualità della piazza finanziaria svizzera, chiedendo la soppressione di 52 articoli e 300’000 franchi di risarcimento all’editore, il giornalista Lukas Hässig. Una denuncia per la quale la procura di Zurigo ha messo in campo tutti i suoi mezzi per identificare gli autori dei commenti sgraditi. Sul fronte degli Suisse Secrets, la banca ha sporto denuncia al Ministero pubblico della Confederazione. Fatto, questo, che ha poi avuto una divertente quanto inquietante appendice riportata dalla nostra zattera.

A seguito della denuncia della banca, l’MPC ha aperto un’inchiesta per fare luce sulla gola profonda. Un’inchiesta che ha dovuto avvalersi anche dell’avvallo del Consiglio federale. La prassi vuole che sia infatti il Governo ad autorizzare i cosiddetti reati politici come lo spionaggio economico. Il fatto assurdo ne paese delle banche è proprio questo: s’indaga su chi ha denunciato il marcio, non sul marcio. Era già successo in passato, con il caso della fuga di notizie alla HSBC di Ginevra e della famosa lista Falciani. È stato in quel contesto che il parlamento, su spinta PLR – il partito delle banche – era poi corso in aiuto al settore rinforzando le normative sul segreto bancario. Ciò che di fatto impedisce tutt’oggi ai giornalisti svizzeri di divulgare notizie che gli sono state rilevate in violazione del segreto bancario.

Questo esempio mostra le priorità della maggioranza politica borghese quando, negli ultimi anni, si è occupata in Parlamento della piazza finanziaria. Un bavaglio ai giornalisti e una legislazione sulle banche troppo grandi per fallire che non ha impedito ad una banca troppo grande di [quasi] fallire. Dopo la vicenda UBS del 2008 ci si è concentrati dunque su problemi come il capitale proprio e la liquidità. Ma non è servito a nulla. Sul letto di morte, Credit Suisse da questo punto di vista era in salute. Il problema era la cultura del rischio, quella che il banchiere Thierry Lombard ha definito la “cultura marcia” di Credit Suisse.

La banca ha pagato questa cultura del rischio su un duplice fronte: quello della clientela, chiudendo occhi e naso per attirare più ricchezza, poco importa la sua origine; quello degli investimenti, speculando e prendendo rischi incalcolabili in operazioni potenzialmente molto redditizie, ma al contempo drammaticamente rischiose. La banca è così finita in diversi scandali e ha dovuto pagare, solo negli ultimi anni, qualcosa come 11 miliardi di franchi di multa. Per contrastare questa cultura, però, si sarebbe dovuto mettere in atto delle regole che avrebbero però messo in pericolo il modello d’affari di molte banche elvetiche. E allora si è preferito passare ad altro, ai giornalisti per esempio.

Oggi tutti si sciacquano la bocca, parlando dello scandalo dei bonus. Nel marzo 2018, il Consiglio nazionale si era chinato su una mozione dal titolo “Basta bonus nelle banche di rilevanza sistemica”. Il testo, presentato dalla socialista Susanne Leutenegger Oberholzer, faceva proprio riferimento a quanto stava succedendo già allora a Credit Suisse. La mozione è stata bocciata a larga maggioranza, 129 sì e 61 no. Da parte sua Karin Keller Sutter, oggi alla guida del Dipartimento delle finanze, nel 2014 ha guidato con successo l’opposizione al Consiglio degli Stati contro una mozione dei Verdi. Il testo chiedeva al Consiglio federale d’intraprendere le misure necessarie a introdurre un sistema bancario che separasse l’attività bancaria tradizionale dalle attività d’investimento. Obiettivo: evitare che il rischio delle attività bancarie non debba essere trasferito ai piccoli risparmiatori e allo Stato. Esattamente quanto successo con Credit Suisse.

Nell’immagine: chi ha votato sì e chi ha votato no sulla mozione “Basta bonus nelle banche di rilevanza sistemica” in Consiglio nazionale il 6 marzo 2028 (grafico PS).
Tra i deputati ticinesi hanno votato sì Marina Carobbio Guscetti e Lorenzo Quadri.
Rocco Cattaneo, Marco Chiesa, Giovanni Merlini, Roberta Pantani, Fabio Regazzi e Marco Romano hanno votato no.

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