Una giornata che non deve finire mai. Perché sia sconfitto e cancellato un tragico principio di sopraffazione

Una giornata che non deve finire mai. Perché sia sconfitto e cancellato un tragico principio di sopraffazione

Ricorre ogni 25 novembre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ben venga, se aiuta a non trascurare il fatto che pure tutti gli altri giorni sono giornate mondiali di violenza contro le donne


Federica Alziati
Federica Alziati
Una giornata che non deve finire mai. Perché...

Ovunque si volga lo sguardo, a qualsivoglia latitudine, seppur con differenti livelli di gravità e frequenza. Presso qualunque realtà politico-sociale, culturale, religiosa, etnica, quasi senza distinzioni di ceto o anagrafiche. C’è soltanto l’imbarazzo della scelta e bisognerebbe avvertirlo davvero, un sincero imbarazzo, passando mentalmente in rassegna tutte le circostanze che si potrebbero chiamare in causa a titolo esemplare. Non serve nemmeno esplicitarle: non serve perché ne abbiamo occhi e orecchie traboccanti; non serve perché neppure questo basta a scuotere le coscienze, ad increspare la superficiale serenità delle nostre giornate ‘individuali’, così spesso dimentiche della realtà tutt’attorno, figurarsi della situazione mondiale.

Come ogni forma di violenza, anche i fenomeni di sopraffazione che colpiscono le donne rientrano nella logica perversa e purtroppo dominante del diritto del più forte di disporre dei più deboli, all’occorrenza bambini, donne, anziani, malati, minoranze, sconfitti: tutti quegli ultimi, insomma, che ancora attendono, su questa Terra, il momento in cui saranno messi al primo posto, o almeno in una condizione paritaria. Quasi cinque secoli prima della promessa evangelica, la Repubblica di Platone inaugurava la ricerca di una res publica ideale ammonendo che non ci può essere giustizia fintanto che quest’ultima è intesa e realizzata come l’utile del più forte: due millenni e mezzo dopo, è ancora arduo avanzare oltre la mota dell’utilitarismo più bieco e della forza bruta.

Ma se una metà del genere umano è puntualmente vittima dell’altra, se le donne sono vulnerabili e violabili in ogni momento della loro esistenza, in qualsiasi condizione, significa che non si può negare la realtà specifica di una violenza di genere, che prende di mira il genere femminile anche soltanto per le qualità, le potenzialità, le aspirazioni che esso incarna per il fatto stesso di esistere. Significa che la femminilità, inscindibile dall’archetipo materno e perciò espressione potentissima di vita e fecondità, fa paura a chiunque tema che il riconoscimento della sacralità e dei diritti fondamentali di ogni forma di vita possa andare a discapito dei suoi miseri, limitati privilegi. Per questo alle ragazze afghane è precluso l’accesso alla formazione scolastica. Per questo le giovani iraniane che si espongono contro il regime teocratico sono incarcerate, torturate e uccise. Per questo si perpetuano le pratiche di mutilazione genitale che impediscono il piacere femminile. Per questo, pochi giorni fa, una ragazza veneta è stata finita a coltellate a pochi giorni dalla laurea, perché non assaporasse l’indipendenza e le prospettive di soddisfazione personale e professionale che quel traguardo le avrebbe aperto.

Nulla di tutto questo accade a caso, non si tratta di violenza cieca, sebbene nasca dalla più atavica ignoranza: è una violenza sistematica che scorge molto bene un potenziale e si affretta con efficacia a soffocarlo. Anche nelle nostre regioni, che non sono soggette al giogo dei talebani. E allora ci si stupisce e indigna, almeno per l’intervallo di un telegiornale. Gli uni si chiedono come sia stato possibile che quel bravo ragazzo, quel padre modello abbiano alzato il coltello. Altri gridano al mostro con quanto fiato hanno in gola, cercando di svuotare insieme ai polmoni la propria coscienza. Credo che nessuna di queste categorie, generalizzanti e dunque incapaci di inquadrare il complesso spettro dell’esistenza, possa servire ad affrontare con obiettività il problema: le nostre società non si reggono sull’alternativa binaria tra bravi ragazzi o mostri, e ad ammazzare le proprie donne non sono né bravi ragazzi né mostri immigrati dal regno dei fratelli Grimm. Sono uomini che hanno una storia personale e relazionale di felicità e sofferenze, di progetti e traumi, nei quali la componente violenta e possessiva ha avuto modo di imporsi e prevalere. 

Spiegare quel che accade pressoché ogni giorno con follie o raptus omicidi è una giustificazione non più tollerabile. E non vedo di quale aiuto possa essere limitarsi a invocare che la belva sia intrappolata e le chiavi gettate, quando ormai le vittime sono sottoterra. Ci accontenteremmo davvero di una società di carceri sovraffollate e cimiteri pieni? Forse ci accontentiamo di una delle due soluzioni, quella più rispondente alla nostra sensibilità, perché entrambe attutiscono le responsabilità collettive. A nessuno di noi, soprattutto a nessun uomo possono essere imputate le singole coltellate sferrate al petto di una donna da un pazzo o da un mostro. Ma della società e della cultura in seno alle quali ragazzi e adulti integrati e ‘normali’ mettono in atto a cadenza quotidiana comportamenti violenti siamo tutti responsabili.

Non è umanamente possibile sradicare del tutto la dimensione brutale dell’essere umano, ma è doveroso impegnarsi ad estirpare quanto la alimenta e rinvigorisce. E se l’oppressione delle donne è un fenomeno storicamente radicato, non è difficile additare diverse ragioni contingenti dell’attualità del problema. La violenza germoglia nutrita dall’immaginario e dal linguaggio violenti e abusivi veicolati dai mezzi di comunicazione e dai contenuti audio-visuali. Dalla distorsione pornografica del rapporto tra i sessi, ridotto alla soddisfazione individuale e al possesso, che raggiunge capillarmente persino bambini e adolescenti. Dai margini di investimento ancora trascurati nell’educazione intellettuale, etico-civile ed emotiva delle nuove generazioni e della società tutta. Dalle risposte insufficienti al bisogno di sicurezza nelle strade, nei luoghi pubblici, sui mezzi di trasporto. Dall’inadeguatezza delle politiche che dovrebbero favorire la formazione e il protagonismo delle donne in ogni settore, per offrire loro la possibilità di conciliare serenamente la vita relazionale e il percorso professionale, e per garantire a quante sono minacciate l’indipendenza economica necessaria a svincolarsi da legami malsani e pericolosi. Davvero non si può fare nulla per arginare tutto questo, a livello locale e globale? È inevitabile che continuino a prevalere interessi più pressanti e miopi logiche di profitto? Sono domande retoriche che non hanno l’ambizione di proporre soluzioni semplici per questioni oltremodo complesse, ma aspirano ad essere parte, seppur minima, di un dibattito che non dovrà farsi via via più sommesso a partire dal 26 novembre.

Nell’immagine: un momento della rappresentazione “Vite spezzate” sulla scalinata della Collegiata di Bellinzona, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne 2019

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