Disabilitare la disabilità

Disabilitare la disabilità

Per Barbara Garlaschelli, di cui è appena uscito il nuovo libro “Sirena nel tempo che cambia”


Nicoletta Vallorani
Nicoletta Vallorani
Disabilitare la disabilità

Barbara Garlaschelli, scrittrice milanese nata come giallista sui generis verso la metà degli anni ’90, nel 2001 esce con un libro fortemente autobiografico: Sirena, mezzo pesante in movimento“ (Ed. Salani) definito spesso come la storia personale di un incidente, ma è una definizione molto riduttiva. Più precisamente, si trattava e si tratta di un atto di coraggio reso scrittura letteraria, una storia di resistenza, un gesto che si dipana in parole e che consiste nel riagguantare la vita quando essa minaccia di sfuggirti, nei fatti e simbolicamente.

In questi giorni è uscito Sirena nel tempo che cambia, (Laurana Editore). È un libro nuovo, la traccia di una crescita: la storia dei primi dieci mesi di vita dopo la lesione che ha cambiato la vita di Barbara Garlaschelli andava continuata. Perché? Perché la resistenza non si riduce a un atto isolato, ma deve srotolarsi nel tempo, e non sempre è facile percorrerne i garbugli. La resistenza, in qualunque ambito, non è un punto, ma un susseguirsi di punti solidi lungo la linea frastagliata della vita; e i punti a volte sono spine. Garlaschelli è tornata con non poco dolore a raccontarsi prima e dopo gli anni del COVID e attraverso le vicende complicate che hanno caratterizzato la vita di tutti.

In fondo al prezioso volume di Laurana, ci sono i contributi di scrittrici e scrittori amici: nell’ordine, Elena Mearini, Giampiero Rigosi, Roberta Lepri, Gaja Lombardi Cenciarelli, Piero Colaprico, Carlo Lucarelli, Katia Colica, Barbara Barladi. Il primo contributo è il mio, ed è questo.

Non sono mai stata brava a contare il tempo.

Come dice la mia amica, non ci so fare con i numeri e col dolore. Mi confondo e mi spavento.

Poi lei dice anche che sono brava a scrivere, ma questa cosa qui non so se è vera.

Quello che è certamente vero è che la prima volta che ci siamo incrociate, negli anni fulgidi della libreria del giallo in Piazza S. Nazaro, di Tecla Dozio, ci siamo trovate vicendevolmente antipatiche, e questo è spesso il modo in cui cominciano i rapporti che poi durano una vita. Comunque sia, in quell’occasione guardarsi di sguincio e detestarci è stata la cosa che abbiamo fatto. Lei era splendente e socievolissima, vegliata dal padre Renzo che non la mollava un attimo. Io, al solito, ero poco convinta di essere lì: snob e spaventata, come sempre. La seconda cosa l’ho persa per strada invecchiando e capendo come va il mondo, mentre l’altra, dice Barbara, è ancora lì, e io credo che abbia ragione: sono snob come lei, cioè, nel senso che penso che la scrittura sia un dono e un mestiere. Come tale, nel migliore dei mondi possibili (che non è l’Italia, soprattutto quella di oggi), la scrittura trova la sua misura in un talento e un’etica precise, che rappresentano le uniche ragioni possibili per cui si scrive.

Si scrive, o si dovrebbe farlo, nella maggior parte dei casi per guadagnarsi da vivere con quello che si sa fare. Il fatto è che non risulta sempre facilissimo. E nemmeno comprensibile.

Dopo quel primo, inceppatissimo incontro, non c’è voluto molto perché Barbara e io ci trovassimo poi intorno a un tavolo, piuttosto alticce e in compagnia del nostro editore di allora (Marcos y Marcos) a scoprirci capaci di ridere senza controllo delle battute più stupide.

Una risata è sempre un buon inizio e una strategia per non morire. Barbara aveva appena pubblicato quella collezione di racconti brevi e folgoranti intitolata, appunto, O ridere o morire, e io andavo in giro travestita da Fidanzata di Zorro, la spazzina detective di uno dei miei primi romanzi.

I vestiti, appunto: Barbara perfetta e io come un incrocio tra il campo rom e la discarica (secondo la definizione giurata della mia figlia più grande). È ancora così: la mia amica non è riuscita a emendarmi, sebbene gli anni mi abbiamo costretto a rinunciare alle salopette a righe e mi abbiano convinta che ogni tanto pettinarsi si può. Persino truccarsi. O, per meglio dire, farmi truccare: sì, perché le prime volte lo ha fatto Barbara. Io ci provavo, ma riuscivo a sbavarmi la matita fino alle orecchie, mentre lei era precisissima. Non avrebbe dovuto, ma a Barbara piacciono le missioni impossibili, e spesso le riescono.

E qui divento seria: la mia amica è tetraplegica. Ci sono un sacco di cose che ha dovuto imparare a fare. Re-imparare, dopo che il suo corpo si è fatto diverso. Alcune di queste cose sono inconcepibili per una persona con una lesione del suo tipo. Molte di queste rientrano in atti quotidiani che facciamo senza neanche accorgercene. Respiriamo senza sapere di farlo. Per una persona tetraplegica, persino respirare è una operazione che può diventare laboriosa e che richiede condizioni specifiche per essere facile. Qualsiasi minimo ostacolo alla respirazione – raffreddore, tosse, bronchite e via dicendo – provoca momenti di apnea e consequenziali attacchi di terrore. Non è come trattenere il fiato: quello è un atto volontario. È, credo, la difficoltà del respiro, la fatica di tirar dentro aria. Tipo adesso, che vorrei parlare al telefono con la mia amica, ma lei non ce la fa perché non ha fiato.

Poi anche tagliare una pietanza o scrivere al computer o tenere in mano un bicchiere… tutto questo è complicato. Si può impararlo, ma è un esercizio che richiede tempo e soprattutto ostinazione. A bizzeffe. Mai sottovalutare la fatica. Mai considerarsi capaci, da normodotati, di capirla. Ci vuole rispetto. E molto amore.

Ecco, questa è una delle cose che ho imparato essendo amica di Barbara: la disabilità è un mondo che non si può immaginare. Si può solo vivere. Pretendere di interpretarlo e immaginarsi soluzioni essendo in una situazione diversa è arrogante. Rifiutare di capirne di più è colpevole.

Questa è stata la ragione primaria per cui ho adorato Sirena, da subito. Che poi non è il termine giusto. Ho pensato, penso e penserò sempre che Sirena sia un libro necessario, da adottare in tutte le scuole, da leggere e rileggere, da imparare sentendolo dentro per capire che il concetto stesso di normalità è un dato parziale e incompleto, una chimera che misura sulle capacità del corpo il grado di valore di una persona. Le disabilità peggiori sono quelle che non si vedono: la mia amica lo dice sempre. E come faccio spesso, le ho scippato la battuta una volta che volevo salire su un treno senza prenotazione esibendo il mio braccio ingessato. Il controllore non voleva saperne. Allora ho agitato il braccio dichiarandolo come disabilità. Il controllore mi ha guardata e mi ha detto: “E questa sarebbe una disabilità?” Ho pensato a Barbara, ai nostri battibecchi su quello che io proprio mi rifiutavo di comprendere, mi sono picchiata un dito della mano buona su una tempia e ho risposto: “Deve vedere cos’ho qui dentro”. Il controllore si è messo a ridere: dopotutto era una sola fermata.

Il punto è che non c’era proprio nulla da ridere: basta ragionarci un poco per capire che le disabilità hanno aspetti molteplici, e quelle invisibili sono più pericolose, anche perché inconsapevoli.

Certe volte uno non ci pensa. Questo libro costringe lettrici e lettori a pensarci, a rendersi conto.

Esiste una tetraplegia del cervello e ne esiste una dello spirito, solo che quelle ti lasciano autonomo, libero di andare in giro a fare danni senza che nessuno si accorga che sei, per così dire, imperfetto. Ci si contenta di valutare – e al meglio con commiserazione – la disabilità visibile. Ma su quel corpo che fa fare cose diverse, dentro quel corpo e nella vita di chi fatica a muoversi da solo, c’è una persona, e nel caso di Barbara una persona straordinaria. La mia amica.

A pensarci bene, Sirena è una storia che dovrebbero leggere anche i governanti quando decidono in che modo intervenire a supporto delle disabilità. Ma quando scrivo queste cose, mi rendo conto di quanto sia utopico il mio pensiero. E di quanta rabbia debba provare Barbara, 100 volte al giorno, in ogni circostanza in cui le accade di scontrarsi con l’incomprensibile e arrogante stupidità dei nostri apparati istituzionali.

Detto ciò, c’è anche un aspetto personale. Dentro questa situazione, ci stanno cioè le doti individuali di reazione e resistenza, e il mondo che hai attorno. Questo è l’altro dato che si impara a legger Sirena, e ancora di più a frequentare questa straordinaria combattente. Barbara non si è mai arresa, come non si è arresa la sua famiglia. Certo, con gli anni, la fatica di resistere sempre si sente e vien voglia di mollare il colpo, magari anche di smettere di scrivere. Negli anni, il Renzo se n’è andato, la Franca, sua madre, si è smemorata, ed è una gran fortuna che ora ci sia Giampaolo. L’innamorato e l’ostinato. L’uomo che si è presentato sulla porta di casa con una rosa e una chitarra, qualche anno fa, e il Renzo ha detto “Troppo bello. Lo perdiamo”, mentre le amiche cercavano tutte di capire dove fosse l’imbroglio.

Che non c’era.

Certe volte l’innamoramento fa queste cose: aiuta a vedere la persona intera, non solo una carrozza.

E così questa è Barbara, una persona complicata, straordinaria, ostinata, inflessibile, aggressiva, generosa, affascinante, inarrestabile. Tangenzialmente, tetraplegica, ma questo non ha mai contato troppo. Che poi non è vero: conta eccome, per la fatica che si fa, per lo sforzo di essere sempre all’altezza delle proprie aspettative, per la ripetuta frustrazione a cercare di realizzarle, queste aspettative, in un mondo professionale un po’ balordo e sempre più incomprensibile.

Quando ci siamo conosciute, Barbara sapeva già di essere una scrittrice, mentre io non ne sono ancora sicura adesso. Le ho invidiato la sicurezza e ho cercato di copiarla. Ci siamo accapigliate non so quante volte, finendo poi immancabilmente a ridere, sulle necessità assurde del mondo della scrittura. Siamo andate insieme a festival e presentazioni. Lei mi ha sempre sostenuta in un modo di cui io non son proprio sicura di essere mai stata capace. Anni fa, quando il mondo del poliziesco era ancora miracolosamente coeso, prima di sfilacciarsi nella collezione di aspirazioni individuali che è ora, ci siamo divertite moltissimo a essere quelle che dissacravano ogni cosa (lei per prima, devo ammettere. Io le sono sempre andata appresso).

Una volta ci hanno invitati, un bel po’ di giallisti, a una serata promozionale per non so più quale casa di moda. Dovevamo scegliere un modello e loro ci avrebbero fatto un vestito su misura. Barbara ha scelto un tailleur con minigonna, che è uscito perfetto; io un tailleur pantaloni, per il quale hanno sbagliato le misure. Alla serata di gala sembrava che io fossi l’accompagnatrice un po’ idiota, in pigiamino oversize, di fianco a uno splendore di donna perfettamente padrona della situazione. Ricordo che c’era pure Piero Colaprico, che pareva un pappone, e Lucarelli, che si è autodefinito “il bambino grasso della prima comunione”. È stata una serata divertentissima, guastata solo dal fatto che nessuno di noi aveva idea di come usare le 25 posate a testa che guarnivano ogni coperto.

Poi molte cose son cambiate, e c’è stato il COVID: una frase che ormai è un mantra per giustificare ogni guaio. La verità è che alcuni di questi guai c’erano già, e sono solo diventati più visibili. Il settore cultura, in particolare, è rotolato su una china inarrestabile, ma non è che prima fosse in ascesa. Nel confronto con scrittori e scrittrici, fatta eccezione per quelli che, per qualche accidente, riescono a navigare come turaccioli nella tempesta, quel che salta fuori è sempre un dato che Barbara e io vediamo con chiarezza (ma di sicuro lo vedono anche parecchi altri): la cultura non è importante. Una onesta formazione che aiuti a comprendere il mondo in cui viviamo neanche. In sintesi, e per fare un esempio che a me pare adeguato: ci si commuove o ci si indigna a sentirsi raccontare la storia di un disagio, di una malattia o di una disabilità, ma finisce lì e serve a vendere libri, non a capire. Ed è necessario, assolutamente necessario, che quel che viene proposto non sia troppo dirompente e non sollevi troppi interrogativi. Sia un anestetico consolante, un po’ come la penitenza imposta dal prete alla fine della confessione. Dopo si può ricominciare come prima.

Ecco Barbara, il suo libro, la sua storia non consentono questa anestesia. La sua scrittura non lo permette. C’è un bisogno, una latenza, un passo in più che deve essere fatto: Sirene reclama la comprensione non come atto consolatorio, ma come consapevolezza che conduce al cambiamento.

Poi, intendiamoci, uno scrittore è bravo o non lo è: per questo Sirena è uno dei due libri di Barbara che raccontano la sua esperienza. Per il resto Garlaschelli è una scrittrice, e come tutti gli scrittori è brava o non lo è. Racconta una bella storia o non lo fa. Non è la scrittrice disabile.

Lei è una scrittrice, anche quando decide di smettere di scrivere. È un accidente che sia in carrozzella, ma la scrittura vale in sé stessa, non per come ci si muove da una stanza all’altra.

Perciò questo è il punto: Sirena va letto come una testimonianza scritta bene, lieve e pesantissima, irragionevole e ragionata, appassionata, colta, intensa, preziosa e sincera.

Irrinunciabile, insomma, come lo è stata per me in tutti questi anni l’amicizia di Barbara.

Abbiamo attraversato quegli anni ridendo e confidandoci cose importanti e cose che non lo erano. Confrontandoci su scritture che non avrebbero potuto essere più diverse. Facendo pezzi di vacanza insieme, di preferenza al mare. Ecco, questa è un’altra cosa da dire: Barbara nuota benissimo. Una volta in acqua, non la si ferma, e non ha paura di nulla. Io, che al mare ci son nata e in teoria so nuotare, ero terrorizzata ogni volta che la seguivo sempre più a largo. Ma lei no, non aveva nessun timore. Il mare è il suo elemento, e spero che riesca prima o poi ad andarci a vivere, come desidera.

Sirena racconta molto di questo amore.

Giampaolo è rimasto la colonna. Lui è uno che resta e che non molla mai il colpo.

Nicoletta Vallorani è scrittrice e docente di letteratura inglese all’Università di Milano

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