Il caporalato è sempre stato una piaga, ma fino a questo punto mai
Le vicende di sfruttamento nell'Agro pontino viste in prospettiva storica da un ticinese che in quella zona ha vissuto e lavorato
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Le vicende di sfruttamento nell'Agro pontino viste in prospettiva storica da un ticinese che in quella zona ha vissuto e lavorato
• – Fabrizio Eggenschwiler
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• – Fabrizio Eggenschwiler
Le vicende di sfruttamento nell'Agro pontino viste in prospettiva storica da un ticinese che in quella zona ha vissuto e lavorato
Il recente, orribile fatto di sangue avvenuto a Latina, a danno del bracciante indiano Satman Singh, può suscitare memorie locali di particolare durezza. In un certo senso il passato della regione potrebbe essere visto come una premonizione del quadro nel quale si inserisce la triste fine dell’indiano.
Per farsi un’idea del contesto locale, presente e passato occorre partire dalla natura paludosa di quel territorio, in parte posto al di sotto del livello del vicino mare. La natura precludeva l’abitabilità e la coltivazione, anche perché la malaria imperversava.
Tuttavia, tra fine XIX e inizio XX, secolo iniziò l’immigrazione, nelle zone abitabili, da aree depresse del Centro-Nord, in particolare dal Veneto, ma anche dalle Marche e dalla Romagna. Un mondo reso efficacemente nel romanzo “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi (premio Strega 2010).
In quel contesto si inserì anche la triste vicenda di Maria Goretti, la bambina dodicenne uccisa da uno stupratore per essersi opposta allo stupro. Maria fu fatta Santa e divenne modello educativo per fanciulle devote (fatti ammazzare ma daghela no!).
Ad ogni modo iniziarono lavori di bonifica, soprattutto dopo l’avvento del fascismo, che ne fece un obiettivo propagandistico. Il “canale Mussolini” fu strumento determinante per la bonifica.
Insieme alla bonifica furono fondate cittadine, quali Latina e Sabaudia. Un successo per il regime, che fu poi portato avanti con la “battaglia del grano” (il duce a torso nudo a trebbiare). Con questa questa battaglia, iniziata nel 1925, il regime riuscì a ridurre il deficit commerciale dovuto all’insufficienza della produzione nazionale di frumento e alla conseguente necessità d’importazione.
In anni recenti, i discendenti degli immigrati di inizio secolo, nel frattempo diventati padroni delle terre che coltivavano, hanno scoperto (o riscoperto) che il “caporalato” è molto più comodo e redditizio del mestiere di coltivatore diretto o di datore di lavoro regolare. Vengano dunque africani, indiani e quant’altri derelitti a spezzarsi la schiena sotto il sole cocente, per paghe miserabili, assunti giorno per giorno (precariato), privi di qualsivoglia protezione sociale, anche grazie al ruolo da “tre scimmiette” (non vedo non sento non parlo!) assunto da autorità varie.
Il caporalato non è una scoperta recente, fa parte della tradizione. Il caporale (ad esempio “degli aquilani”) era il capo di una squadra di operai specializzati nello scavo di canali agricoli); il caporale concludeva l’accordo con il committente, comandava, dirigeva, incassava, ripartiva, non sgobbava). Vi erano anche caporali che sorvegliavano il lavoro manuale di raccolta o piantagione, sempre chini sulla terra. Il caporale, a cavallo, con un lungo bastoncino, appena qualcuno/a sollevava la schiena, gli impartiva un colpetto di avvertimento. Insomma il caporale non è mai stato una figura simpatica. Del resto, nel contesto militare il caporale è quello che tormenta direttamente le reclute, insieme al sergente maggiore. “Siamo uomini o caporali?” si chiedeva Totò.
La figura del caporale è interdipendente con quella di bracciante, l’operaio agricolo, privo di una terra propria, che presta le proprie braccia come forza lavoro in cambio di una retribuzione in natura o in denaro. Il bracciante, e peggio ancora il bracciante immigrato dal terzo mondo, lavora la terra alle dipendenze dirette del proprietario della terra o di chi ne fa le veci , il massaro il fattore.
Il bracciante tradizionale, ormai raro, è stato sostituito dal bracciante immigrato: entrambi, sia pure a un grado diverso di accanimento, devono vendere le proprie braccia per vivere. La differenza è che i caporali tradizionali tormentavano secondo qualche regola, quelli che si occupano di immigrati non hanno regole. Forse il nostro caporale ha pensato che se il lavoratore si era tagliato un braccio lui doveva soltanto restituire alla famiglia corpo e braccio; poi non erano affari suoi.
Il modello attuale di caporalato si ispira a un capitalismo agrario sfrenato, alieno da qualsiasi regolamentazione e protezione o, semplicemente, pietà.
Non dimentichiamo che qualcosa di simile, sia pure con regole precise, avvenne anche in Svizzera nell’ultimo dopoguerra, quando il grande sviluppo economico trovò uno strumento ideale nella manodopera italiana e spagnola, a buon mercato, stagionale (sempre meglio che giornaliero), alloggiata in baracche, con divieto di ricongiungimento familiare… però se si tagliavano un braccio mica glie lo buttavano addosso.
Del resto non si può dimenticare i nostri immigrati hanno spesso potuto mettere radici in Svizzera far studiare figli e nipoti, diventare cittadini svizzeri.
Alcuni dei dati e delle considerazioni qui esposte sono frutto di ricordi e di conversazioni con mio padre Giorgio Eggenschwiler (1899-1974), il quale, neolaureato in agraria, lavorò nella bonifica delle paludi pontine; in seguito campò e mi fece campare quale amministratore tecnico, o affittuario, di proprietà agricole nell’Agro romano.
Nell’immagine: donne al lavoro nell’Agro pontino
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