Naufraghe – Aleksandra, valchiria della Rivoluzione

Naufraghe – Aleksandra, valchiria della Rivoluzione

Un ritratto di Aleksandra Kollontaj, la prima donna nella storia a diventare ministra e ambasciatrice. La sua è una biografia ricchissima di momenti cruciali e di un’opera che vale la pena di recuparare e conoscere meglio


Sabrina Faller
Sabrina Faller
Naufraghe – Aleksandra, valchiria...

Ho incontrato per la prima volta Aleksandra Kollontaj una quindicina d’anni fa, attraverso la ripubblicazione di uno fra i suoi numerosi scritti, Largo all’Eros alato! , a cura di Luigi Cavallaro, Il melangolo, 2008, e mi sono appassionata alle vicende di colei che mi è apparsa subito una figura straordinaria di donna. Stiamo infatti parlando della prima donna ministro di un governo in carica, e della prima ambasciatrice della storia, oltre che di una rivoluzionaria, una femminista, una scrittrice prolifica e colta, una creatura di grande fascino, e molte altre cose ancora. La sua vita è un romanzo, un film o se preferite una serie tv. 

Nasce nel 1872 a San Pietroburgo da famiglia di antica nobiltà russa, il padre generale e proprietario terriero, la madre finlandese sposata a lui in seconde nozze e già madre di due figli.  Aleksandra  cresce in un ambiente agiato e, come ultima nata, amata e coccolata. La sua educazione scolastica avviene in casa, sotto la guida di Maria Strachova, istitutrice  segretamente legata agli ambienti rivoluzionari. A sedici anni, superato l’esame di maturità, Shura (era questo il soprannome di Aleksandra) si ribella alla volontà familiare che la vorrebbe moglie di un ‘buon partito’ e qualche anno dopo sposa un lontano cugino,Vladimir, ingegnere squattrinato, da cui prende quel nome –Kollontaj- che l’accompagnerà per tutta la vita, e da cui avrà un figlio, Mikhail, che in parte la seguirà nelle sue vicende.

Nel 1894 la neomamma è impegnata nella sua città come insegnante delle classi serali frequentate dagli operai. Ma un giorno Aleksandra visita con il marito una fabbrica tessile dove lavorano in condizioni di semi-schiavitù dodicimila tra operai e operaie. E’ questo il momento di svolta, in cui deciderà di impegnarsi interamente a favore di un cambiamento della società, mettendo a fuoco in particolare la condizione drammatica delle donne delle classi più povere. Nel 1898 lascia il marito –da cui è di fatto già separata- e il figlio per recarsi a studiare all’Università di Zurigo con l’economista Heinrich Herkner, ma l’anno successivo è già di ritorno a San Pietroburgo, dove aderisce al partito socialdemocratico russo allora fuorilegge e comincia a scrivere articoli e pamphlet e in seguito a farsi conoscere come oratrice, in particolare durante i primi moti rivoluzionari del 1905. Due anni dopo, avendo constatato il completo disinteresse del partito per la questione femminile, fonda il primo circolo delle operaie russe e le convince a battersi per i loro diritti, contro il maschilismo dei datori di lavoro ma anche degli stessi compagni di partito e contro il femminismo borghese delle suffragette, ignare o insensibili nei riguardi della condizione delle donne operaie e contadine.  

Nel 1908, processata e condannata per attività sovversiva, è costretta a fuggire in Germania , lasciando il figlio, che all’epoca vive con lei, ad amici di famiglia, mentre il suo piccolo patrimonio viene liquidato. Non rivedrà più la sua casa e non potrà  tornare in patria fino al 1917. Sono anni pieni e fruttuosi per la sua attività politica, quelli dell’esilio, densi di viaggi e di incontri: Inghilterra, Danimarca, Svezia, Belgio, Svizzera e Italia, dove insegna in una scuola di partito fondata da Maksim Gorkij a Bologna e anche all’Università.  Si lega d’amicizia con intellettuali marxisti come Rosa Luxembourg,  Klara Zetkin,  Karl Liebknecht e Karl Kautsky. 

Scrive e pubblica molto sulla questione femminile, studiando cosa avviene negli altri paesi, quali leggi regolano la vita sociale della donna, promuovendo il suo diritto a un matrimonio d’amore, ad una maternità consapevole, all’assistenza per lei e il bambino, all’educazione per lei e per i figli, al riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, al diritto al divorzio e all’aborto. Già nel 1909 aveva dato alle stampe il libro Le basi sociali della questione femminile; successivamente pubblica un ampio studio comparativo sulle leggi vigenti nei paesi europei e in Australia riguardo all’assistenza sociale alla maternità, dal titolo Società e maternità, formulando proposte che diventeranno legge nel breve periodo in cui Aleksandra sarà ministra.  

Allo scoppio della guerra, lascia la Germania insieme al figlio e ripara in Svezia, dove porta avanti il suo impegno per la pace. Unitasi alla corrente bolscevica che rifiuta la guerra, inizia una fitta corrispondenza con Lenin, allora in esilio in Svizzera,  e pubblica un pamphlet di grande successo dal titolo A chi serve la guerra?. Sempre nel 1914 ottiene che l’8 marzo sia proclamato anche nel suo paese giornata festiva dedicata alle donne operaie.  Nel 1915 parte per un lungo giro di conferenze negli USA in quattro lingue diverse. 

Quando scoppia la rivoluzione del febbraio ’17, Aleksandra, dalla Norvegia, rientra in Russia, dove appoggia le ‘tesi di aprile’ di Lenin, diventa oggetto di una campagna di stampa denigratoria, viene arrestata in luglio, rilasciata in agosto per partecipare attivamente alla rivoluzione d’ottobre, in seguito a cui è nominata commissario per l’assistenza sociale, ovvero ministra del welfare, mantenendo la carica fino al marzo 1918: prima donna nella storia a ricoprire la carica di ministra, in anticipo di decenni rispetto alle donne dei paesi occidentali.  Ed è lei che comincia a mettere in atto forse la più importante riforma sanitaria su vasta scala che il mondo abbia conosciuto. Istituisce una commissione di medici per elaborare un piano per la creazione di ospedali gratuiti in tutto il paese e fonda un centro di assistenza legale per la madre e il neonato, individuando un edificio atto a trasformare in realtà il progetto. 

Nell’autobiografia, scritta a cinquant’anni, quando Aleksandra aveva ancora tanta vita e un’altra carriera da vivere, ricorda con dolore l’incendio che distrusse l’edificio, e capisce che qualcosa sta cambiando: ci sono frizioni e divergenze d’opinione nel governo. Si dedica alla questione femminile senza perdere di vista il nascente problema dell’eccessiva centralizzazione e burocratizzazione del partito, che la porterà ad opporsi a Lenin e alla politica della NEP (che reintroduceva temporaneamente l’economia di libero mercato nella produzione agricola e nelle imprese piccole e medie, per ricostruire l’economia stessa dopo i dissesti dettati dalla guerra civile e dalla carestia), decretando perciò la propria estromissione dalle cariche politiche. Tutto questo, unito al fallimento del suo secondo matrimonio, la getta in depressione. Nel 1919 infatti Aleksandra si è sposata di nuovo, a 46 anni, con il 29enne Pavel Dybenko, semianalfabeta, capo dei marinai della flotta del Baltico, uno dei fondatori dell’Armata Rossa, che ricoprì importanti cariche politiche e fu poi arrestato e fucilato nel 1938 all’epoca delle grandi purghe staliniane. Nel ’21 Dybenko  guida l’esercito contro i ribelli di Kronstadt e l’anno successivo conclude con onore il corso alla prestigiosa Accademia Militare Navale, grazie alla tesi che Aleksandra scrive per lui e alle idee che lei gli fornisce per la riforma dell’esercito. Ma Pavel ama la bella vita e non sa resistere a nulla: donne, alcol, eccessi di ogni genere. Aleksandra decide di lasciarlo. Dybenko con gesto plateale tenta il suicidio, ma ciò non impedisce a lei di chiedere la separazione. 

Nel 1922, disoccupata e separata, Aleksandra scrive a Stalin, divenuto primo uomo del partito a seguito della malattia di Lenin, e questi le offre un incarico diplomatico all’estero.  In quello stesso anno è nominata ambasciatrice in Norvegia –e anche questa è una prima volta per una donna- e di lì pubblica quattro scritti sulla questione femminile, tra cui il sopracitato Largo all’Eros alato!, un’ esortazione ‘alla gioventù lavoratrice’ e una riflessione sulla facoltà di amare e di sviluppare il proprio potenziale d’amore, passando attraverso la convinzione che la vita erotica e sessuale degli esseri umani non sia meno importante della lotta di classe e che la realizzazione del socialismo vada di pari passo con il raggiungimento di una condizione di parità fra i sessi. Lo scritto suscita scandalo in URSS ed è accolto con scetticismo, ironia, rifiuto. Ma Aleksandra, conscia di una nuova opportunità in una vita densa di sorprese e di sfide, si dedica con grande intelligenza e passione alla sua nuova attività. Ricopre incarichi diplomatici in Messico, poi ancora in Norvegia, e infine assai proficuamente in Svezia dove resta fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Si devono a lei i trattati di pace che l’Unione Sovietica stipula con la Svezia e con la Finlandia e che le valgono una candidatura al Nobel per la pace nel 1946 e nel ‘47. Rientrata da Stoccolma nel ‘45, trascorre gli ultimi anni della sua vita a Mosca in un appartamentino di due stanze, che il governo le dà in premio, come consulente del ministero degli esteri, fino alla morte, il 9 marzo 1952. 

Lascia una mole di scritti, oggi in gran parte dimenticati, di teoria politica, sulla società, sulla questione femminile, sulla condizione operaia delle donne, sulla liberazione sessuale e la nuova morale, scritti giornalistici, pamphlet e perfino romanzi. La sua opera è stata in parte tradotta in italiano negli anni Settanta del secolo scorso, all’epoca d’oro del femminismo, compresa l’autobiografia, pubblicata da Palazzi nel 1973 con il titolo Autobiografia di una comunista sessualmente emancipata.  Poi, l’oblio per decenni. Solo nel nuovo secolo c’è stata qualche scintilla di interesse nei suoi confronti, inaugurata dalla ripubblicazione del testo sopracitato e seguita dal volume di Annalina Ferrante Aleksandra Kollontaj. Passione e rivoluzione di una bolscevica imperfetta, L’asino d’oro, 2021.  Oggi quell’interesse è riconfermato dalla accurata e brillantissima biografia che la storica Hélène Carrère d’Encausse le ha dedicato a coronamento di una intensa vita accademica e professionale volta all’approfondimento delle vicende della Russia e dell’Unione Sovietica, prima di morire nell’agosto 2023 all’età di 94 anni. È lei la madre del più noto Emmanuel Carrère, scrittore, sceneggiatore e regista.

Il libro si intitola Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione (Einaudi 2023), e offre l’opportunità di scoprire la complessa, tumultuosa e affascinante vicenda biografica di una donna lungimirante e appassionata, sempre dedita alla grande questione dell’emancipazione femminile, intelligente e talentuosa, elegante, spericolata e sognatrice. In un breve scritto del 1922 gioca con l’immaginazione, pensa a quello che sarà il futuro del suo paese e del mondo, e vede un mondo che ha ripudiato la guerra, la competizione, perfino il denaro, un mondo dove l’umanità vive in laboriosa pace, dedicandosi alla professione scelta, alla cura di sé e della comunità, perché ovviamente Aleksandra immagina un mondo senza confini, costituito di tante comuni in cui si vive in pace e serenità. Ma nel 1952, quando se ne è andata (e poco dopo se ne sarebbe andato anche Stalin, con il quale ebbe un rapporto difficile, teso e contraddittorio, testimoniato nelle inedite e coraggiose pagine del suo diario) quale futuro poteva ancora immaginare Aleksandra per il comunismo sovietico e internazionale? 

Ora che questa eccezionale figura di donna è tornata in primo piano grazie alla biografia di Hélène Carrère, sarebbe interessante approfondire alcuni temi scottanti  legati ai suoi rapporti con Lenin e soprattutto con Stalin, ai quali seppe tenere testa in modo diverso, riuscendo a proteggere se stessa e, almeno in parte, la sua famiglia (figlio e nipoti, di cui uno morto suicida nel 1931 per la ‘troppa sorveglianza’), destreggiandosi laddove molti suoi amici o ex amanti o compagni di partito non furono risparmiati. Più volte Aleksandra tentò di intercedere per loro, con scarso successo, ed esiste una lettera del comitato centrale, recapitata negli ultimi giorni della sua vita, in cui le si chiede di smetterla di importunare il governo con richieste di grazia. Certamente colei che aveva vissuto a fianco di Lenin i giorni entusiasmanti della rivoluzione si accorse presto con dolore, così scrive nel suo prezioso diario, che il comunismo aveva perso la sua umanità. A lei il merito di avere contribuito grandemente a forgiare la donna del futuro, indicandole la strada dell’emancipazione, strappandola in pochi decenni da una condizione di arretratezza culturale e sociale inimmaginabile, per trasformarla in donna consapevole dei propri diritti, diritto all’educazione, al lavoro in ogni ambito professionale, politica compresa, diritto all’assistenza nella cura dei figli, moglie e madre per scelta, cittadina alla pari con l’uomo.    

 Nell’immagine: fotografia di Aleksandra Kollontaj (1900 ca.)

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