Naufraghi, perché
Sosteneva Jack London che “le più belle storie cominciano sempre con un naufragio”. Sarà vero? Noi, nemmeno sappiamo come finirà la nostra, di storia. Dove potrà sospingerci, su quali casuali rotte e verso quali invisibili approdi, la navigazione che cominciamo oggi. Perché chiamarci “naufraghi/e”? E rispetto a cosa? Una deriva può anche essere volontaria, cercata, attesa. Ed in effetti è un po’ così. Siamo “naufraghi/e” per scelta. Salpati con l’idea di allontanarci (forse anche solo temporaneamente) dalla terraferma dei resoconti banali, scontati, ombelicali per affrontare il mare aperto, anche agitato, anche minaccioso di questi tempi, ma che ci impegni in una sopravvivenza più cosciente, più ragionata, più motivata. E più sociale. Sì, sociale. Collettiva.
Del resto, per restare al già citato Jack London, lo scrittore visionario ambientò nel 2013 (proiettandosi di oltre un secolo rispetto alla sua epoca) la “Peste scarlatta”: racconto e monito di come l’umanità possa distruggersi, tra virus auto-indotti e feroci egoismi. Anche Howard Smith, il docente narratore del libro, si era dovuto allontanare per sopravvivere. Per capire. E per testimoniare.
Quindi, buon viaggio.
Se non fosse chiaro, il nostro naufragio è metaforico. È un naufragio mentale, non una condizione di vita, o di morte. Con tutta la comprensione e solidarietà per chi ne vive il dramma e la tragedia.