A rischio l’impero del Sultano

A rischio l’impero del Sultano

Ormai vicine le elezioni più insidiose per Erdogan: per il suo regime islamista illiberale, che ha trascinato la Turchia in una devastante crisi economica


Kamran Babazadeh
Kamran Babazadeh
A rischio l’impero del Sultano

È iniziato il conto alla rovescia per le elezioni presidenziali e parlamentari della 28esima legislatura turca, voto che si terrà il 14 maggio prossimo. Stando ai sondaggi, potrebbe rivelarsi la consultazione più difficile per Erdogan : il “sultano” è tuttora difficile  da sconfiggere – beneficia ancora di un vasto sostegno popolare soprattutto nella parte anatolica della nazione, e i suoi metodi quantomeno illiberali possono aiutarlo nel manipolare il voto -;  difficile da battere ma non più invincibile, soprattutto a causa della profonda crisi economica in cui ha trascinato il paese, aggravata dal recente, terribile terremoto.

Peseranno le alleanze. I partiti di opposizione cooperano puntando al voto dei curdi, mentre il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente , imbarca nella sua coalizione due nuove formazioni politiche: gli estremisti islamici del YRP (New Welfare Party) e l’Huda-Par. Due “partiti” che a stento arrivano all’1% dei consensi. Anche questi due schieramenti fanno parte della galassia dei radicali mussulmani, che hanno presentato trenta richieste, fra cui la cancellazione della legge che contrasta e punisce la violenza sulle donne nonché la chiusura di tutte le associazioni che difendono i LGBTQ+, e la loro libertà sociale. Già nel 2021 il partito del “sultano” aveva sancito il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istambul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere e domestica, scatenando la rivolta delle donne, e l’indignazione della comunità internazionale.

Il ruolo dei curdi, un bacino elettorale di otto milioni di persone, potrebbe rivelarsi fondamentale nell’esito del voto. Il Partito Democratico dei popoli (HDP), che unisce forze filo-curde e forze di sinistra, con il suo 10% di voti ha deciso di sostenere la cosiddetta coalizione “tavolo dei sei” anti Erdogan. Questo raggruppamento  – che ebbe un ruolo determinante nella conquista della municipalità di Istanbul – è guidato da Kemal Kilicdaroglu, detto “il Gandhi turco”, leader del partito repubblicano. Proprio negli scorsi giorni 25 dei suoi esponenti sono stati arrestati nell’Anatolia sud-orientale con l’accusa di presunta affiliazione a gruppi terroristici curdi del PKK. Ciò a ulteriore conferma che nel Paese cresce la repressione; inoltre,  in risposta alla prospettiva di una sconfitta o quantomeno di fronte ad una partita ancora tutta da giocare, si controlla e si limita la libertà di stampa. Altro significativo esempio: la tedesca “Deutsche Welle”, uno dei principali media stranieri operativi sul territorio con notizie in lingua turca (i turchi immigrati in Germania costituiscono la più numerosa minoranza in Germania, e non pochi di loro possono votare) si è vista negare il rinnovo dei permessi, e ha dovuto chiudere i propri uffici di corrispondenza. 

Secondo “Reporter Senza Frontiera”, il 90% dei media nazionali turchi è sotto controllo governativo. La Turchia si trova al 149esimo posto su 180 nazioni al mondo in fatto di libertà di stampa. Attualmente 33 giornalisti sono in carcere per articoli e reportage invisi alla classe al potere, compresi alcuni cronisti che hanno raccontato il devastante sisma del 6 febbraio scorso, denunciando i ritardi nei soccorsi e l’instabilità dei palazzi crollati perché costruiti in tutta fretta con materiale di scarsa qualità, poco sicuro e di basso costo.

Erdogan perde così pezzi del consenso che lo ha tenuto al potere praticamente per due decenni. Fatto significativo: a quaranta giorni dal voto, l’economista Mehmet Simsek, assai stimato e rispettato a livello internazionale, ha rifiutato di assumere la guida del ministero dell’Economia. Il ‘no’ di Simsek è la riprova delle difficoltà e delle insidie che deve affrontare il capo dello Stato, le cui politiche hanno scatenato la crisi del costo della vita e lasciato i mercati finanziari in balia delle decisioni sconsiderate del governo. La spericolata scelta di tagliare i tassi d’interesse per rilanciare la crescita economica, ha portato l’inflazione all’85%. La lira turca ha perso l’80% del suo valore rispetto al dollaro. Ragione per cui molti investitori stranieri hanno abbandonato il Paese.

Cosa farebbe Erdogan se, una volta aperte le urne, risultasse sconfitto al primo turno? Sicuramente evocherebbe brogli elettorali o qualche complotto ordito dall’immancabile Fetullah Gülen: islamista ed ex alleato, poi determinato nemico del presidente, dal 1999 si è rifugiato negli Stati Uniti, in Pennsylvania, e, terremoto a parte, viene accusato di qualsiasi cosa di problematico accada al Paese. Gli fu anche attribuita la responsabilità dello “strano” golpe di sette anni fa, seguito da un’ondata di arresti. Se la prima tornata elettorale dovesse vedere in testa gli oppositori, Erdogan potrebbe mettere in campo i servizi segreti a lui fedelissimi, elaborare scenari che distrarrebbero e inquieterebbero l’opinione pubblica, e far presidiare dalle forze armate strade e piazze per tentare di rovesciare a suo favore l’esito del ballottaggio. 

A lungo padrone del Paese, corteggiato per forza di cose dalla comunità occidentale per il suo ruolo di mediatore nella guerra ucraina, dopo aver inviato in Siria e Libia reparti del suo esercito  (il più importante fra quelli europei della Nato), e dopo aver perseguito una politica estera di influenza neo-ottomana, rapportandosi ambiguamente con la stessa Alleanza Atlantica, il “sultano” è pronto a tutto pur di perpetuare la sua presa sulla Turchia. 

Nell’immagine: Erdogan il Sultano

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