Anker, un valore finalmente capito
In sala il bel documentario di Heinz Bütler “Albert Anker. Lezioni di pittura da Raffaello”
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In sala il bel documentario di Heinz Bütler “Albert Anker. Lezioni di pittura da Raffaello”
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In sala il bel documentario di Heinz Bütler “Albert Anker. Lezioni di pittura da Raffaello”
Oggi però Anker viene proposto in una chiave nuova, moderna e inattesa, grazie alla quale abbiamo la possibilità di leggere anche un pezzo della nostra storia, ritrovando alcuni di quelli che sono stati i valori fondanti del nostro Paese. In Albert Anker. Lezioni di pittura da Raffaello, infatti, il regista Heinz Bütler riesce nell’intento di fare letteralmente rivivere il pittore di Ins attraverso la sua casa, oggi museo, che custodisce – a oltre cent’anni dalla morte dell’artista – un atelier perfettamente conservato, al punto di dare l’impressione che Anker debba rientrarvi da un momento all’altro.
Lo studio d’artista, al primo piano di una vecchia casa bernese, si rivela come una sorta di ottocentesca Wunderkammer, con quelle sue pareti di legno rivestite dei ricordi di una vita (una bussola, calchi in gesso, ritagli, una libreria), attraverso i 46 taccuini pieni di appunti (contabilità domestica, piccoli sketch che paiono moderni fumetti), con i colori mescolati in loco e i pennelli realizzati a mano (uno addirittura con un pelo di sopracciglio di capriolo).
A restituirci la figura di un uomo sorprendente e moderno a modo suo, sono una serie di personaggi che si incontrano nell’atelier di Anker, per discuterne e scoprirne le pieghe meno conosciute; fra tutti spicca l’imponente Endo Anaconda, poeta e frontman della leggendaria band elvetica Stiller Has, scomparso poco dopo la fine delle riprese, nel 2022. Endo Anaconda (all’anagrafe Andreas Flückiger), anche lui di origini bernesi, dal primo momento si ritrova nella casa di Anker, nei valori di un uomo che amava i figli smodatamente e che aveva eletto bambine e bambini a proprio soggetto preferito, che aveva studiato le lingue (ne conosceva sette) con la stessa abnegazione con cui aveva dipinto per una vita intera. Guardando il documentario, si scopre così un artista mite e innamorato del proprio luogo di nascita, ma che comunque viveva molti mesi all’anno nella grande Parigi, dove aveva assorbito l’aria dell’impressionismo, che aveva accettato la scelta dell’unico figlio maschio sopravvissuto di lavorare lontano da casa sulle grandi navi, e che realizzò oltre 800 quadri, nessuno dei quali venduto dopo la morte.
Intorno a Endo Anaconda, una serie di comprimari di tutto rispetto, pronti a corroborare una nuova lettura dell’artista: dalla storica alla storica dell’arte, passando da un pronipote e uno scrittore. Partendo dai colori, dagli studi, dalla composizione dell’immagine, si scoprono informazioni sui materiali di cui erano fatti i tessuti, sulla scolarizzazione avvenuta – per femmine e maschi – negli anni 30 dell’800, sulle mode di Parigi, sui soldati di passaggio con i geloni ai piedi, in un’indagine postuma in cui la pittura vissuta come ragione di vita va di pari passo con la vita stessa, offrendo alla spettatrice e allo spettatore un’espressione di serenità e appagamento che forse nell’immaginario collettivo mal si sposa con la figura dell’artista.
Un uomo innamorato del genere umano, lo definisce uno degli interpellati, ed è proprio quella l’ultima immagine che ne abbiamo, al termine di un’ora e mezzo di documentario: gli occhi chiari di Albert Anker catturati da una foto in bianco e nero, sembrano chiedere e chiedersi, al cospetto del tramonto della vita, “sarò stato un bravo padre? Sarò stato un bravo figlio?”. A raccontarcelo, spingendosi nelle supposizioni che tanto gli stanno care e mosso a commozione, sempre Endo Anaconda, e così, alla fine, il documentario si trasforma in un doppio omaggio, a due artisti che hanno vissuto e amato ognuno a modo suo, e la cui vita è stata (anche) un luminoso palcoscenico.
Nell’immagine: Albert Anker al lavoro
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