Tra le riviste culturali della Svizzera italiana – perché testualmente tale si definisce –
Archivio Storico Ticinese è una delle più autorevoli.
La sua storia è un ormai lungo percorso di studi e ricerche, un percorso segnato dai contributi di figure eminenti della nostra regione come Basilio Biucchi, Pio Caroni, Raffaello Ceschi, Giorgio Cheda, Ottavio Besomi. Solo poche parole, dunque, per dire che venne fondata nel 1960 da Virgilio Gilardoni – che la diresse sino alla sua morte, avvenuta il 2 novembre 1989 – e da Libero Casagrande. Oggi la redazione è composta da Stefania Bianchi, Fabio Casagrande, Marco Marcacci, Andrea Martignoni e Alberto Azzi.
Pubblicato semestralmente dalle Edizioni Casagrande di Bellinzona, AST si è dato tre scopi essenziali: il rigore scientifico, abbinato a una leggibilità che ne allarghi la fruibilità evitando una eccessiva specializzazione; lo sguardo privilegiato sul territorio alpino e prealpino e sulla sua dimensione di mediazione, scambio e frontiera; il ruolo di laboratorio culturale per stimolare il confronto storiografico e il dibattito intellettuale. Obiettivi, mi pare, pienamente raggiunti, come conferma l’articolo che ha attirato la mia attenzione, firmato da Alberto Azzi, Primitivi sguardi fotografici sulla Svizzera italiana. Un album inedito del 1855 di Gaspard Roman.
Già docente di economia politica al Liceo di Mendrisio, Azzi (1962) sa raccontare assai bene, prendendo letteralmente per mano il lettore. Qui ci presenta la figura di Gaspard Roman (1812-1886), ricco industriale alsaziano e grande appassionato di fotografia. Nel 1855, egli intraprese (perché di impresa si trattò) un avventuroso viaggio a sud delle Alpi, con l’obiettivo di scattare delle immagini che si possono considerare tra le prime, se non le primissime, vedute fotografiche del Canton Ticino. Leggendo l’articolo, mi è tornato alla mente – in un percorso contrario – il viaggio di quell’Emilio Balli, globe-trotter ante litteram che, invece, dal Ticino partì, nel 1878, per fare il giro del mondo in nave. La bella mostra che gli viene dedicata dal Museo di Vallemaggia a Cevio riaprirà il 22 aprile.
Di Gaspard Roman è emerso recentemente, presso un collezionista privato di Mendrisio, un album di 22 fotografie, del tutto inedite (formato circa cm 26 x 35), che si affiancano ad un altro album già noto, appartenente al Museo nazionale svizzero di Zurigo. In quel caso, 8 immagini (scattate nella Svizzera francese, nei Grigioni e sul Lago Maggiore) vennero pubblicate nel 1994 nel volume Im Licht der Dunkelkammer, dedicato alla fotografia svizzera dell’Ottocento, ma – sottolinea Azzi – “senza alcuna notizia biografica significativa sull’autore, rimasto sin qui sostanzialmente sconosciuto”.
Chi era, allora, questo Roman? L’accurata, direi filologica indagine di Azzi ha permesso di identificare in lui il figlio maggiore di un imprenditore di origini ginevrine, dapprima direttore, poi azionista della manifattura tessile Gros, Davillier, Roman & Cie di Wesserling, piccolo comune rurale francese, a circa un’ora da Basilea. Quell’azienda, prima filatura meccanica del cotone in Alsazia, fondata nel 1762, arrivò ad occupare fino a oltre 5 mila dipendenti e venne chiusa definitivamente solo nel 2003. Azzi ricostruisce l’esistenza di Roman e la sua duplice importanza di industriale (decorato con la Legion d’onore) e di pioniere della fotografia.
Il nostro Gaspard – che all’epoca del suo viaggio in Ticino aveva da poco superato i 40 anni ed era tra i titolari della fabbrica – non poteva assentarsi troppo a lungo: la trasferta durò solo alcune settimane. Non è stata possibile una datazione più precisa, poiché anche le diciture annotate sulle singole immagini (con grafia diversa e dunque non necessariamente autografe) non aggiungono elementi utili. Si può tuttavia supporre che il viaggio potrebbe aver avuto inizio in Romandia, seguendo un percorso che attraversa il Vallese, s’inerpica sul Sempione, tocca Gondo, Iselle e Pallanza, le isole del Verbano, per poi raggiungere il Ticino, ma anche – apprendiamo dai titoli che l’autore appose alle foto – Thusis, la Via Mala, il passo del San Bernardino e, naturalmente, Giornico, la Leventina e il passo del San Gottardo sul cammino del rientro.
Nell’immagine Route du Simplon près de Bérizal, scattata sul versante vallesano, si nota, in basso a destra, una carrozza ferma su una curva. Accuratamente protetta dalle intemperie con un telone cerato, era in realtà un vero laboratorio mobile che “custodiva i bagagli, ma soprattutto anche la fragile e preziosa attrezzatura per poter svolgere in viaggio tutte le fasi del processo fotografico, opportunamente sistemata per resistere al trasporto sulle strade alquanto sconnesse di allora”. Quel laboratorio comprendeva i flaconi contenenti le sostanze chimiche, i quaderni con le carte negative e positive, lampade e fornelli, una cassetta con il treppiede e la camera oscura che misurava 29 x 38 cm. Inoltre, una tenda d’emergenza qualora non si fosse trovato un alloggio.
Mentre oltre oceano, negli Stati Uniti, i cosiddetti fotografi ambulanti non erano una rarità, nel nostro Paese se ne conosce un unico esempio, quello degli Studer di Weinfelden (TG), attivi nella Svizzera tedesca alla fine del XIX° secolo.
Ad immaginarci meglio un tour come quello effettuato da Gaspard Roman ci aiuta un testo fondamentale che egli stesso pubblicò l’anno prima a Parigi nel volume Guide du photographe, di Charles Chevalier.
“Se è già difficile fare della buona fotografia a domicilio, queste difficoltà non sono nulla in confronto a quelle che l’amatore si deve aspettare in viaggio” scriveva Roman. E Azzi precisa: “La pazienza sarebbe stata messa a dura prova sia per le difficoltà nel trovare alloggi adeguati sia per la necessità di trovare buona acqua (essendo esclusa l’ipotesi di portare elevate e pesanti quantità di acqua distillata) sia per la ricerca dei migliori punti per le riprese. Il peso del bagaglio avrebbe dovuto essere ridotto al minimo dato che sulle montagne ci si sarebbe serviti di muli e in certi casi anche solo di fatica”.
Gaspard Roman – verosimilmente la figura che vediamo seduta sul muretto opposto della foto descritta sopra – si era appassionato alla fotografia proprio quando questa disciplina stava muovendo i primi passi e cercava una propria identità originale tra le arti visive. Sarebbe sbagliato, però, ridurne la figura al dilettante facoltoso, che dunque poteva permettersi una spedizione semi-esotica come quella in Ticino. Allievo di Gustave Le Gray (1820-1884), caposcuola della cosiddetta fotografia primitiva, che abbinava perizia tecnica e forte lirismo anche nei reportages più “giornalistici”, Roman aveva alle spalle una solida formazione in chimica, che gli servì tanto in azienda che nell’attività fotografica.
Confrontato con i paesaggi subalpini, ha saputo spesso andare oltre i clichés con cui essi sono stati immortalati anche da altri fotografi, in parte spinti da motivazioni commerciali, come Claude-Marie Ferrier (1811-1889), “che ha senza dubbio alimentato un’offerta di immagini di carattere turistico”; o invece da motivazioni scientifiche e documentaristiche “legate alla geologia e alla geografia, orientate ad esempio allo studio dei ghiacciai ma anche all’esplorazione dell’alta montagna”. Come osserva Azzi, “la riscoperta delle fotografie di Roman ci consente ora di aggiungere una motivazione a quelle già citate. La tensione artistica dell’alsaziano ha fatto del Ticino un eccezionale laboratorio di sperimentazione non solo a livello tecnico, dal quale sono risultate alcune splendide immagini, delle vere e proprie opere, pensate e concepite secondo una lezione tutta orientata al perfezionismo e alla qualità”.
Roman ha esercitato l’attività di fotografo fino alla fine dei suoi giorni, anche se, dopo il viaggio del 1855 nella Svizzera italiana, si registra una pausa di quasi 30 anni. Solo negli ultimi due anni di vita, tra il 1884 e il 1885, egli realizzò altri 4 album intitolati Fribourg, Menton (2 e 3) e Wesserling.
L’album acquisito dal collezionista di Mendrisio comprende, come detto, 22 dei 127 scatti complessivi conosciuti di Roman: 130 se consideriamo altre 3 immagini attribuite. Le foto “ticinesi” raffigurano il lago di Origlio (6), Bissone (2), Lugano (2), il Golfo di Agno, Giornico, oltre ad altri luoghi identificati e non. Il corpus integrale viene puntualmente registrato e descritto da Alberto Azzi nell’articolo. Già in altre occasioni Azzi si era occupato delle origini e dell’importanza della fotografia nel Ticino del secondo Ottocento: talvolta opera d’arte vera e propria, sempre e comunque documentazione preziosa di un paesaggio-territorio che, agli albori del turismo moderno, era visto, a Settentrione, come porta d’ingresso ad un quasi mitico Sud e, nel Mezzogiorno, come primo avamposto del Nord.
Nell’immagine: una fotografia di Gaspard Roman