Di Thomas L. Friedman, La Repubblica
Il presidente Biden è mio amico. Deve ritirarsi dalla corsa.
Ho guardato il dibattito presidenziale fra Biden e Trump da solo, in una camera d’albergo a Lisbona, e ho pianto. In tutta la mia vita, non ricordo un momento altrettanto straziante in una campagna presidenziale americana, straziante proprio per ciò che ha rivelato: Joe Biden, una brava persona e un bravo presidente, non ha alcuna possibilità di essere rieletto. E Donald Trump, un uomo malvagio e un presidente meschino, non ha imparato niente e non ha dimenticato niente. È il megafono di bugie che è sempre stato, ossessionato dalle sue lagnanze, in nulla simile a ciò che serve all’America per assumere un ruolo di guida nel XXI secolo.
La famiglia e la squadra politica di Biden devono radunarsi al più presto e fare con il presidente la conversazione più difficile, una conversazione fatta di amore, chiarezza e risolutezza. Per dare all’America la massima possibilità di sventare la minaccia Trump a novembre, il presidente deve farsi avanti, dichiarare che non si candiderà alla rielezione e liberare tutti i suoi delegati per la convention democratica nazionale.
Quanto al partito repubblicano, se i suoi leader avessero un minimo di integrità chiederebbero la stessa cosa, ma non ce l’hanno e non lo faranno. È quindi ancora più importante che i democratici mettano al primo posto l’interesse del Paese e annuncinol’inizio di un processo pubblico che permetta a diversi candidati democratici di competere per la nomination. Attraverso consigli cittadini, dibattiti, incontri con i donatori, qualunque cosa. Forse sarà un processo confuso e caotico, dato che la convention inizia il 19 agosto a Chicago, ma ritengo che la minaccia rappresentata da Trump sia abbastanza grave da indurre i delegati a fare rapidamente squadra e a scegliere un candidato condiviso.
Se la vicepresidente Kamala Harris ha intenzione di candidarsi, lo faccia, ma gli elettori hanno diritto a un processo trasparente di ricerca di un candidato democratico che possa unire non solo il partito ma anche il Paese, offrendo qualcosa che nessuno dei due uomini presenti sul palco di Atlanta giovedì sera ha offerto: una descrizione convincente dello stato attuale del mondo e una visione convincente di ciò che l’America può e deve fare per conservare il ruolo di guida morale, economica e diplomatica.
Questo frangente della storia è tutto fuorché ordinario. Siamo all’inizio della più grande discontinuità tecnologica e climatica della storia. Siamo all’alba di una rivoluzione dell’intelligenza artificiale che cambierà tutto per tutti; il modo di lavorare, imparare, insegnare, commerciare, inventare, collaborare, combattere, commettere crimini e combattere il crimine. Forse mi sono distratto, ma sembra che nessuno durante il dibattito abbia pronunciato le parole “intelligenza artificiale”.
Se mai c’è stato un momento in cui il mondo ha avuto bisogno dell’America al suo meglio e guidata dai migliori è questo, perché incombono gravi pericoli e si prospettano grandi opportunità. Un Joe Biden più giovane avrebbe potuto essere la persona giusta, ma il tempo ha infine avuto ragione di lui. E ciò si è manifestato in maniera dolorosa e ineluttabilmente ovvia giovedì.
Biden è mio amico dai tempi in cui, dopo l’11 settembre, abbiamo viaggiato insieme in Afghanistan e in Pakistan, quando era presidente della commissione Affari esteri del Senato. E’ quindi con grande tristezza che mi esprimo in questi termini.
Ma se ora metterà un termine alla sua presidenza, riconoscendo che la sua età non gli permette di affrontare un secondo mandato, il suo primo e unico mandato sarà ricordato come uno dei migliori della nostra storia. Ci ha salvati da un secondo mandato di Trump e solo per questo meriterebbe la medaglia presidenziale della libertà, ma ha anche varato provvedimenti importanti che saranno fondamentali per affrontare le rivoluzioni climatiche e tecnologiche in arrivo.
Finora sono stato disposto a concedergli il beneficio del dubbio perché, nelle occasioni in cui ho avuto modo di parlargli di persona, mi era sempre sembrato in condizione di fare il suo lavoro. Ora chiaramente non lo è più. La sua famiglia e il suo staff dovevano saperlo. Erano asserragliati da giorni a Camp David per preparare questo cruciale dibattito. Se quello che abbiamo visto è il massimo che sono riusciti a ricavare da lui, è tempo che Joe conservi la dignità che merita e abbandoni la scena al termine del suo mandato.
Se lo farà, sarà osannato dagli americani per aver fatto ciò che Donald Trump non farebbe mai: mettere l’interesse del Paese davanti al proprio.
Se insisterà per correre e perderà contro Trump, lui e la sua famiglia, assieme allo staff e ai membri del partito che glielo avranno permesso, non potranno più farsi vedere in giro.
Loro meritano di meglio. Gli americani meritano di meglio. Il mondo intero merita di meglio.