Jihad in Caucaso, l’incubo di Putin
L’attacco in Daghestan dimostra che il presidente russo non è riuscito a risolvere il problema islamista. E dopo essere stato il trampolino della sua ascesa, il Caucaso diventa la sua spina nel fianco
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L’attacco in Daghestan dimostra che il presidente russo non è riuscito a risolvere il problema islamista. E dopo essere stato il trampolino della sua ascesa, il Caucaso diventa la sua spina nel fianco
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L’attacco in Daghestan dimostra che il presidente russo non è riuscito a risolvere il problema islamista. E dopo essere stato il trampolino della sua ascesa, il Caucaso diventa la sua spina nel fianco
A Makhatchkala quando ne parli le voci si fanno più basse, le occhiate frugano sospettose. Paura: sì, la si può chiamar così. O forse è il muto alambicco di una antica prudenza. La cupola della moschea Omorova si staglia in una aerea corolla di luce, nell’azzurro terso e deciso del Caucaso. Soprattutto il venerdì è meglio non avvicinarsi: troppe barbe mosaiche, troppi pantaloni sopra la caviglia come ordina il Corano dei Vecchi Credenti. E l’aria estranea ostile che respiri in molti quartieri del mondo, dalla Via della seta al Sahel. I soldati e i poliziotti occhieggiano, e come un rito ogni tanto portano via i «sospetti». I wahabiti, come li chiamo qui. Ma le prediche degli imam più arrabbiati circolano e sono diffuse come reliquie: Allah non ha bisogno di poltroni ma di guerrieri, è una prova che ci manda dio!
I wahabiti che i servizi russi hanno censito registrandone il Dna e la voce si dice siano decine di migliaia e in continua crescita.
Nella moschea di Derbent non pregano più né nostalgici dell’islam guerriero né fedeli più tiepidi. È stata incendiata una decina di anni fa. L’imam era stato arrestato come terrorista. Proprio qui il 29 dicembre del 2015, sotto i bastioni di una fortezza millenaria, lo Stato islamico ha rivendicato il primo attentato in Daghestan: un morto e una decina di feriti. Ci sono città come Khassavieurt a una ottantina di chilometri dalla capitale dove negli anni caldi del califfato in Siria migliaia di persone scendevano in strada per ribellarsi alla crociata anti-islamica di Putin che aiutava l’eretico sciita Bashar Assad e bombardava i veri credenti.
A voi non dice nulla il nome di un villaggio, Balakhani o quello del distretto aspro, raggiungibile su piste di pietra, Untsukul, in questa piccola repubblica musulmana di tre milioni di abitanti rimasta incastrata nell’impero russo, dimenticata nel turbine caotico degli anni novanta mentre tutto il Caucaso alzava nuove bandiere. Ebbene è in posti come questo, nel vicino Oriente, in Cecenia, in Africa, che la rivoluzione islamica ha costruito la sua minaccia totalitaria e globale. Da questo piccolo villaggio del Daghestan è partito, negli anni in cui Al Baghdadi minacciava il mondo, il gruppo più folto di russofoni che hanno combattuto sotto le bandiere nere: oltre un migliaio. Prima che l’esercito con i blindati riportasse l’ordine i ritratti dei mujaedin e dei martiri della legione daghestana decoravano orgogliosamente le case e le vie.
Padri e mediatori, mentre il cerchio si stringeva intorno a Raqqa, hanno fatto la spola con la Turchia offrendo cifre molto alte per far rientrare i figli a casa prima della fine che si annunciava senza pietà. Chi veniva sorpreso a fuggire veniva decapitato. Si parla di almeno settecento combattenti che sono ritornati nel Caucaso, molti sono finiti in prigione, qualcuno è stato eliminato silenziosamente dai Servizi. Alcuni padri raccontano che i figli hanno trovato rifugio in Ucraina.
E gli altri, i reduci, i «siriani»? Forse erano nel commando che ha seminato il terrore nella capitale della regione. Daghestan: solo l’ennesimo focolaio tenuto in vita dal Califfato globale, combinando febbri fredde di biografie diverse, fanatismi e localismi e un’unica causa. Perché i servizi di sicurezza russi sono riusciti a sgominare l’emirato del Caucaso che faceva capo ad Al Qaeda ma hanno perso la battaglia con gli uomini dell’Isis. Poche settimane dopo la uccisione del primo emiro del Dagestan Aliaskhab Kebetov nel 2015, nasceva la Provincia islamica del Caucaso che giurava fedeltà al califfo di Mosul e al suo nuovo emiro «legittimo» Aselderov.
Il Caucaso, sì, contiene troppe cose, troppe anche per la matematica risoluta e liquidatoria di Putin: il fuoco di prometeo e l’acqua del Diluvio, le amazzoni che amarono Alessandro, un luogo dove l’umanità si trasforma, si rigenera e si reincarna dopo la prova feroce della sofferenza. Per i russi terra di poesia, di miti, di feroci battaglie, loro abituati all’obbedienza e al rispetto cieco dell’Autorità hanno sempre incontrato la ambigua fascinazione dei montanari fieramente liberi disposti a morire per questo, valli e giogaie dove il saluto del «buon giorno» si traduce «Sii libero!».
E allora di seguito, in un tumulto che soffoca, Lermontov e il pugno di ferro bolscevico, l’umiliazione cecena di Eltsin e la vittoria sporca di Putin e del suo complice Kadirov. Guerre coloniali indescrivibili, bazar che rumoreggiano e continuano gli affari: qui ogni cosa è intrecciata come nei prati si intrecciano erbe di ogni tipo. Piani imperialistici abbandonati e ripresi con nomi diversi, la terra è ricca, le religioni antiche, c’è miseria e stirpi che hanno sofferto un millennio di esilio. I ricordi non si stendono, scorrono a brani. E come potevano non arrivar loro, i wahabiti dell’ Isis, funzionari zelanti del disordine con il loro fanatismo testardo, dogmatico e meticoloso? Hanno umiliato i servizi di Putin con il massacro del Crocus City Hall a Mosca e ieri con ogni probabilità hanno colpito di nuovo: perché quella è la loro firma, raid scenografici e spettacolari, commando che sparano nelle strade, attaccano uffici di polizia, chiese e sinagoghe, sgozzano un prete noto per i buoni rapporti con i musulmani.
Il Caucaso è una spina di Putin, dopo esser stato il trampolino per la sua ascesa con la pacificazione della Cecenia con il ferro e il fuoco. Tassello di quell’ex spazio sovietico che è uno dei pilastri della idea neo imperiale: dove furono la Russia zarista e l’Urss lì è terra da liberare, omologare, controllare. Curiosamente è lo stesso precetto, in chiave teologica, che muove gli uomini del jihad: le terre dove è risuonato il nome di Allah devono ritornare nelle frontiere dei credenti.
Nel riflesso automatico, quasi ossessivo, con cui Mosca reagisce agli attentati jhadisti, perfino prima che ci sia una rivendicazione esplicita, accusando misteriose forze straniere e servizi occidentali, c’è propaganda interna legata alla guerra in Ucraina ma soprattutto il tentativo di negare che il problema islamista non è stato risolto. Putin resiste ed esiste solo se vince: sarebbe grave dover ammettere che il suo primo successo nel Caucaso sulla via della ricostruzione della potenza russa era un falso.
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